Ogni conflitto, non solo quello in Ucraina, va fermato a ogni costo e non fomentato con interventismi imperialistici, sanzioni e aumento di spese militari. Le sinistre si snaturano ma, per combattere lo stravolgimento della realtà imposto dai poteri oppressivi, occorre tornare al vecchio slogan socialista «né un uomo, né un soldo» per la guerra
Il titolo in italiano era brutto e sbagliato. Ma alla fine Vogliamo vivere! è risultato di un’efficacia commovente. Stiamo facendo riferimento al capolavoro di Ernst Lubitsch To be or not to be (Usa, 1942), satira del nazismo girata in piena Seconda guerra mondiale, emozionante, soprattutto se rivista dopo la scoperta di tutti gli orrori hitleriani, alla pari de Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin, col suo splendido monologo.
Come spesso capitava nel passato, la traduzione del titolo cinematografico nella nostra lingua, allorquando la pellicola poté essere diffusa nella penisola, fu brutta e infedele. Tuttavia, col tempo, ha acquisito un proprio valore davvero efficace. «Vogliamo vivere!». Eh, sì, sembra banale, ma, vedendo i tanti guerrafondai di queste settimane, non lo è: le persone comuni desiderano innanzi tutto vivere e le guerre, tutte, anche quelle “giuste”, seminano la morte, il dolore, la distruzione. E quando, purtroppo, scoppia un conflitto armato, come nel caso ucraino, occorre fermarlo a ogni costo. Anche perché esso è stato causato certamente dalla bieca aggressività del dittatore russo Vladimir Putin, ma anche dalla cecità di tutte le altre nazioni nei riguardi di una crisi che si protraeva da almeno otto anni, con decine di migliaia di morti, nonché dal mancato rispetto da parte dell’Ucraina del Protocollo di Minsk del 2014 (per avere un quadro complessivo, anche storico, della situazione in quella fetta di Europa, sono preziosi i numeri 2 e 3 di febbraio e marzo 2022 del mensile di Geopolitica Limes). Come evitare la guerra e le sue terribili conseguenze umane ed economiche (secondo uno studio uscito sul Journal of Peace Research, se dal 1970 al 2014 non ci fossero state guerre, il Pil globale sarebbe stato più alto del 12%)? Si vis pacem, para pacem: le uniche modalità sono la diplomazia, le trattative, i negoziati e i compromessi. Così nel 1962 si è risolta la crisi cubana (leggi al riguardo l’articolo di Giuseppe Licandro in questo stesso numero di LucidaMente). Marcello Veneziani (Chi decide l’ordine del mondo?, in Panorama, 9 marzo 2022), ammette che «non c’è una soluzione ma un compromesso realistico tra potenze, diritti, modelli, esigenze».
Pertanto, l’intellettuale pugliese auspica, anche se con poche speranze, che si giunga ad «accettare la pluralità del mondo e circoscrivere, riconoscere alcune aree omogenee o spazi vitali – per dirla con la geopolitica, Carl Schmitt o più recentemente Samuel Huntington: l’Europa, gli Stati uniti, l’America latina, la Russia, la Cina, l’India, il Sud-Est asiatico, l’Africa, il Medio Oriente o civiltà islamica, l’Australia. Le grandi aree naturalmente possono essere intese diversamente, ma queste dieci ci sembrano le più indicative, a loro volta suddivise in altre aree minori. L’ordine mondiale non può che essere governato da rappresentanti di queste dieci realtà principali. Non è la soluzione regina e le tensioni non sono certo evitate, ma l’unico criterio di compromesso, l’unico confine di garanzia non può che essere stabilito a partire da queste linee di demarcazione».
«Nel caso Ucraina», conclude Veneziani, «non può essere la superpotenza americana a stabilire la liceità di fagocitare a occidente l’Ucraina che già nel nome rispecchia il travaglio del suo confine; e non può essere la Russia a imporre con la forza la sua egemonia. È necessario riconoscere in queste terre di mezzo una dignitosa neutralità in modo che l’Ucraina non diventi né Occidente, con le basi Nato sui confini con la Russia, né diventi Stato satellite della Russia; ma uno Stato autonomo neutrale che resti a separare l’Occidente e l’Oriente». Al contrario, fin dall’inizio e con una pericolosa escalation col passare del tempo, i possibili interlocutori della Russia, quali Stati uniti, Nato, Unione europea, hanno assunto un atteggiamento di chiusura verso il dialogo, aizzati in questo dal discutibile presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj. Così il ruolo di mediatori è stato assunto da Turchia o Israele, mentre la Cina persegue i propri interessi. Intendiamoci: il discorso secondo il quale si sta combattendo una battaglia tra autoritarismo e democrazie è una falsità. Sia Russia sia Ucraina, nazioni peraltro, come la Bielorussia, appartenenti alla stessa matrice etnico-religioso-linguistico-culturale, sono Paesi tutt’altro che liberali, nei quali l’influenza di autocrati e mafie è rilevante. Allora, la guerra putiniana e la risposta aggressiva di Usa e alleati hanno soprattutto motivi economici. Come quasi tutti i conflitti armati, anche se non bisogna mai sottovalutare che possono esistere cause anche di natura patriottica, idealistica, sociale, religiosa, culturale, ecc. E, purtroppo, se si guarda alla Storia, le paci sono sempre state delle brevi pause tra guerre continue.
La Russia ha tutto l’interesse a mettere le mani sul Donbass ricco di risorse (carbone, gas naturale, petrolio, industrie, grano e semi di girasole), oltre che a difendere i russi al suo interno massacrati da soldati governativi e battaglioni neonazisti. Comunque, le economie dell’Unione europea e russa sono complementari. Pertanto, sono solo gli americani ad avere tutto l’interesse a interrompere i rapporti commerciali, in continuo aumento, tra nazioni europee e colosso euroasiatico, basati sullo scambio centrale risorse energetiche e materie prime versus manufatti e tecnologie. A subentrare nelle forniture di petrolio e gas a prezzo ben maggiore sarebbero proprio loro. Dunque, la solita, sporca guerra, della quale pagano il prezzo maggiore le persone comuni coinvolte nei teatri di battaglia.
Ma la novità è che a fomentarla non sono tanto o soltanto i vecchi “nazionalisti” di un tempo, disprezzati senza alcun distinguo, almeno quanto i “sovranisti”, dalle sinistre liberal dappertutto al potere nei cosiddetti “stati democratici” (peraltro da due anni senza libertà per “dittatura sanitaria”), ma proprio i “progressisti”. I quali, nonostante le tante belle affermazioni, si dimostrano “razzisti” o, quanto meno, poco sensibili verso le altre etnie, quando si tratta di massacri di serbi, libici, afghani, irakeni, siriani, yemeniti ecc. ecc. e, ora, ucraini. Allora, quali vite contano (secondo gli slogan alla moda come Black lives matter)? Nelle menti radical chic esiste una gerarchia che pone in alto neri americani, gay o transgender, immigrati delle sponde sud del Mediterraneo, donne della jet society che si dicono abusate; in basso e in fondo bianchi, maschi, occidentali, eterosessuali, autoctoni, cristiani, malvagi per natura innata e colpevoli di ogni abominio compiuto sul pianeta… E chi muore per le guerre d’aggressione per interessi geostrategici ed economici simili a quelle scatenate da Putin, ma a guida Usa e Nato (vedi Dal 1945 ad oggi 20-30 milioni gli uccisi dagli Usa)? Non conta nulla. Paradossalmente, a ricordare questa logica dei due pesi e delle due misure non sono stati giornalisti, intellettuali o storici, ma i tifosi serbi della Stella Rossa di Belgrado, peraltro tradizionalmente amici della Russia, coi loro striscioni esposti lo scorso 17 marzo prima di una partita di Europa League, che elencavano le decine e decine di invasioni statunitensi di Stati indipendenti e sovrani (vedi foto). Insomma, per l’Occidente, i crimini di guerra “amerikani” non esistono, valgono solo quelli altrui. Anche perché, al contrario che nell’Ucraina, le immagini dei cadaveri e delle distruzioni provocate dagli “interventi umanitari” non vengono trasmesse in tv: dopo il Vietnam, gli Usa ne hanno imposto la censura assoluta.
Come nel caso Covid, i poteri forti, sostenuti dalla quasi totalità dei media asserviti, hanno martellato le popolazioni con menzogne su menzogne, usando ancora l’arma orwelliana dello stravolgimento del linguaggio e della criminalizzazione e derisione dei dissidenti (un caso per tutti, quello del professor Alessandro Orsini). Ha scritto Antonio di Siena de l’AntiDiplomatico: «I nazisti sono diventanti patrioti; gli interventisti, pacifisti; i mercenari, volontari; i civili, resistenza o terrorismo a seconda della fazione. I colpi di stato sono diventati rivoluzioni colorate; provocazioni belliche e sanzioni, diplomazia; guerre decennali, sanguinose e con migliaia di morti, conflitti a bassa intensità; la guerra è diventata missione di pace; il dialogo e l’equilibrio, una minaccia; il diritto internazionale interpretabile a seconda dei casi. Ormai plasmano le parole come plastilina, riscrivono la realtà di volta in volta, adattandola alle esigenze come fosse il copione di un film non perfettamente riuscito. E molti, inebetiti dalla trama neanche troppo originale, non riescono a staccare gli occhi dallo schermo ingozzandosi di popcorn alla merda. Senza nemmeno accorgersi del sapore, perché gli hanno detto che è cioccolata».
Aggiungeremmo che quella che una volta era definita, senza mezzi termini, ideologia, ovvero manipolatoria visione del mondo e della realtà, è oggi ribattezzata «narrazione» nella neolingua che ci vogliono imporre, così come con i neologismi «resilienza» o la schwa; in tal modo il potere intende ricostruire una verità funzionale ai propri piani. Non a caso, è stata proprio la mente del Forum economico di Davos, Klaus Schwab (guarda caso, “schwa”+b), a definire la narrazione «sforzo collaborativo dei principali pensatori del mondo per modellare prospettive a lungo termine e co-creare una narrativa che possa aiutare a guidare la creazione di una visione più resiliente, inclusiva e sostenibile per il nostro futuro collettivo». Una fredda, tecnocratica neolingua, quasi incomprensibile, da lavaggio del cervello. Ed ecco, puntuale, la nuova pubblicazione di Schwab (con Thierry Malleret): The Great Narrative. For a better future. E, nella narrazione del potere, spedire armi è salvare vite umane e difendere a ogni costo una cleptocrazia oligarchica è salvaguardare la libertà dell’Occidente. Pensateci un po’: sembra che si stia aggiungendo un altro fondamentale tassello alla realizzazione del regime prefigurato da George Orwell nel suo 1984. Dopo il controllo sociale assoluto, la penuria economico-materiale a fronte di statistiche falsificate sull’andamento dell’economia, l’odio quotidiano vero i dissidenti, la delazione, la neolingua, le menzogne dei media asserviti al potere, la cancel culture, ecco che si profila l’eterna guerra (o continuo stato di conflitto) contro una potenza straniera, contro un nemico odioso e subumano inventato a bella posta: nel romanzo dello scrittore scozzese Oceania contro Eurasia ed Estasia; nel nostro futuro Usa-Nato-Ue contro Russia, Cina e magari mondo arabo. Dalle menzogne della neolingua ci si salva guardando la realtà con semplicità, senza “narrazioni”-ideologie, non ascoltando la martellante propaganda massmediologica, e recuperando le verità del passato. Quindi, ricordando ancora la vecchia posizione pacifista del socialista Andrea Costa: «Né un uomo, né un soldo» per la guerra.
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 196, aprile 2022)
Smettere le guerre per procura (questo sarebbe il titolo idoneo allo striscione).
Da quando son nato, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale, ho assistito ad una continua lotta politica, migliaia di guerre per procura, omicidi di statisti che avevano visioni differenti.
Gli Stati uniti che seguono perfettamente a manuale, Impero romano e Giulio Cesare continuano ad ogni costo ad annettere territori, per schiavizzarli monetariamente, forniscono armi e rivoluzioni in kit all inclusive, tanto paga il popolo.
A nessuno salta in mente che esiste l’UOMO come essere vivente, essere sociale.