La letteratura è affascinante anche perché, oltre a creare bellezza, può suggerire, essendo per sua natura ambigua e polisemica, una vasta gamma di simboli e di significati, che tocca a ciascun fruitore decifrare o, meglio, percepire.
Prendiamo il racconto che questo numero di LucidaMente propone al lettore: Il colombo palermitano di Giuseppe Costantino Budetta. Potrebbe leggersi come un ritratto “animalista” di un simpatico volatile, adattatosi all’ambiente cittadino. Eppure, qualcosa stride. Segnali allarmanti si accumulano entro parcellizzate ottiche sbilanciate e inquietanti. E se l’animaletto fosse una metafora di…?
Sono un colombo palermitano, pigolo e razzolo chicchi di grano su questo pezzo di marciapiede vicino all’albero dove son nato. Faccio passetti sulle finestre e scendo per strada se non c’è traffico. Muovo la testa avanti e indietro, guardo di là, pure di qua. Volo e mi accheto su quella grondaia verde corolla che copre l’edicola del giornalaio. Vivo su un pezzo di marciapiede che a destra converge per via Maqueda. Traggo risorse da un buon bar da cui provengono pezzi di roba: biscotti con zucchero, cornetti di avena, fiocchi di mais e residui di dolci di vario tipo che ognuno uscendo getta per terra. Briciole becco con rapidità prevenendo le razzie degli altri colombi che rubano in fretta e volano via.
Ho conquistato il territorio dove vivacchio e dormo scacciando un colombo di vecchia data. Adesso ho risorse a volontà e dormo in pace sulla grondaia del giornalaio. Vivo nel centro della città.
La domenica, mi unisco con altri colombi in frotte fruscianti per le aiuole. Volando felici, becchiamo ingozzandoci i chicchi che bimbi ci buttano addosso sullo spiazzale di palazzo Partanna. I bimbi ridono con grande gioia vedendoci intorno in brevi svolazzi, pure propensi a brevi carezze. Alcuni ci fanno le foto ricordo insieme coi figli vestiti a festa. Godiamo nell’essere artefici vaghi dei bei ricordi e dell’infanzia che fugge via.
Sopra quell’albero ingabbiato e spento, sopra quell’albero pieno di smog con rade foglie tutte annerite, passai nel nido i primi giorni di vita. Vedevo curioso passarmi di sotto fugaci macchine e filovie. Adesso volo e becco per terra tra i tanti piedi di gente che passa. Con tante chicche becco fanghiglia, becco frattaglia e ingoio quisquiglia. Ingoio famelico briciole e crusche di tanti pani di fronte a quel forno. Quando m’ingozzo e sono ripieno, volo in grondaia dal giornalaio dove mi appisolo e faccio la siesta per digerire con calma e pazienza dentro quest’aria ferma e malsana. Verso la sera tra lumi e barlumi, mi vado a cucciare dentro quel buco proprio di fronte al Politeama. Dentro quel buco scavato in un muro, passo la notte col becco nell’ala. Tra i rumori delle ultime macchine, socchiudo le palpebre e piego le ascelle. L’alba mi sveglia coi primi chiarori, quando la strada è ancora deserta. Aspetto la gente e le sue briciole gettate per fretta sul marciapiede. Aspetto la gente entrata nel bar da cui fuoriesce, buttando per terra residui di cornetti farciti e pezzetti di biscotti sfarinati in cartacei salviettini appallottolati. Faccio di lì il pasto del mattutino.
Una volta volai con lunga virata per via Archirafi, sopra i tetti di palazzo Butera. Presi il volo col cuore in gola dopo gli spari nella mia strada. D’istinto mi alzai in volo furtivo senza capire cosa accadeva. Udii spari di mitragliera, erano colpi di kalashnikov con rumori assordanti e forti trambusti, poi tante grida in cerca di aiuto. Dalle grondaie udii sirene spiegate delle volanti accorse sul posto. Ci furono suoni di clacson, concitate sirene di polizia e grida di allarme sparse dovunque. Da sopra quel tetto giravo la testa col becco anelante a destra e a manca. Rimasi nascosto nella grondaia di palazzo Butera per ore, finché, al tramonto, tornò il silenzio. Mi feci coraggio e per la prima volta lontano dal mio buco e giaciglio di via Maqueda, guardingo mi appisolai. Era la zona di altri colombi che, vedendomi all’alba nel nuovo posto, mi avrebbero beccato come intruso. La mattina sul presto sarei fuggito per ritornare al posto nativo.
Quando tornai nella mia zona, sul marciapiede di via Maqueda, vidi per terra del sangue lavato e odore pungente di creolina. Seppi, poi, udendo la gente, che c’era stata strage di mafia. Queste cose poco mi tangono, e becco furtivo chicchi di pane.
Sono un colombo palermitano e faccio la vita da marciapiede. Di tanto in tanto per cambiare aria volo nel parco di viale d’Orleans privo di asfalto e mattonelle. In quel viale c’è suolo sterrato, alberi verdi, siepaglia e aiuole. Odoro il fresco dell’erba matura e la resina di palme e di pioppi. Per evitare di essere cacciato dai colombi che vivono lì, volo via subito virando in alto al centro città. Ritorno in zona tra l’albero buio, l’edicola scura, il marciapiede e l’asfalto lisciato dalle auto.
Nella stagione dei grandi amori in primavera e autunno, quando le colombine hanno la fregola, tubo con foga con qualche colomba in calore volata propinqua dai rioni più attigui. Ho la mia prole di bianchi colombi sui marciapiedi al mercato del pesce.
Tutto il mio mondo è una mappa mentale: c’è la tettoia dove mi addormento, il marciapiede per razzolare, c’è l’albero scuro vicino all’incrocio ad abbellire il panorama. E quell’edicola mezza sbilenca mi dà in aggiunta cibo e riparo. Sono un colombo palermitano, pigolo e vivo sul marciapiede.
(Giuseppe Costantino Budetta, Il colombo palermitano)
L’immagine: particolare della Predica agli uccelli (Firenze, Cappella Bardi, Basilica di Santa Croce) del Maestro del San Francesco Bardi (1240-1270 circa).
Viviana Viviani
(LM MAGAZINE n. 14, 15 gennaio 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 61, gennaio 2011)