Il documentario “The true cost” di Andrew Morgan svela il legame tra consumismo, prezzi bassi e sfruttamento: quanto sappiamo sul reale impatto della fast fashion industry?
Il regista Andrew Morgan ha realizzato The true cost, un documentario che analizza e denuncia gli effetti della “nuova” moda sugli esseri umani e sull’ambiente. Nel 2015 è stato proiettato per la prima volta al Festival di Cannes ed era disponibile fino a qualche giorno fa sulla piattaforma online di Netflix. Di che cosa tratta esattamente? Di responsabilità sociale negata in favore del profitto a ogni costo.
Inizialmente, si vedono scorrere immagini di diverse catene d’abbigliamento come Forever21, Gap, H&M, Primark, Zara, e tante altre. Tutte accomunate da prezzi più o meno bassi, prolificità nel proporre sempre nuovi capi e sedi di produzione nei Paesi in via di sviluppo. Nell’aprile del 2013, in uno di questi, il Bangladesh, presso la capitale Dacca, si è verificata una strage senza precedenti: un edificio commerciale di produzione tessile, il Rana Plaza, ha ceduto. Otto piani sono crollati e hanno causato la morte di 1.129 persone; lavoratori che avevano già segnalato alla direzione l’instabilità della struttura, ma che erano stati poi costretti a entrarvi ugualmente. È da qui che parte Morgan, sottolineando come quella di Dacca non sia stata l’unica tragedia nel settore e notando anche un paradosso agghiacciante: il profitto era cresciuto in misura proporzionale all’aumento dei disastri. L’anno successivo al Rana Plaza è stato il più redditizio fino a quel momento.
Dunque, tagliare i costi e ignorare le misure di sicurezza è il modo di fare impresa? Il documentario illustra come in tutto il mondo (secondo i dati raccolti durante la realizzazione del servizio) il tessile occupi quaranta milioni di lavoratori, di cui il 10% sono in Bangladesh. Arif Jebtik, proprietario della Garment Factory a Dacca, ha spiegato come i grandi marchi si rechino dagli impresari locali con la necessità di produrre capi a prezzi sempre più bassi per fronteggiare la concorrenza. Naturalmente, se le richieste di contenere ulteriormente i costi non possono essere esaudite, bussano alla porta di altre aziende. Gli imprenditori si vedono così costretti ad accettare tali “ricatti” di mercato, altrimenti perdono la commissione.
La situazione non è diversa in altri Paesi, ma invece di tutelare i propri cittadini lavoratori, i governi, come quello cambogiano, pur di fare affari con rivenditori esteri e non lasciare che la produzione si traferisca altrove, reprimono violentemente le proteste e mantengono bassi i salari. La grande astuzia dei marchi famosi è affermare che, siccome le aziende dove si lavora il prodotto non sono di loro proprietà, non sono loro ad assumere direttamente i dipendenti. Traggono, quindi, enormi guadagni restando contemporaneamente fuori da ogni tipo di responsabilità civile, penale e morale. Chi osa avanzare qualche richiesta in nome dei diritti sociali spesso viene malmenato, come è successo a Vandana Shiva, che lo racconta ai microfoni del regista. La giovane ragazza indiana lavora a Delhi come tessitrice: quando, insieme a un gruppo di colleghi, ha presentato alla dirigenza delle richieste scritte per condizioni e stipendio dignitosi, è stata percossa con i suoi compagni. Per il futuro, soprattutto per quello di sua figlia, Shiva vorrebbe che nessuno indossasse più «vestiti fatti col sangue dei lavoratori».
Sempre rimanendo sul territorio indiano, basta spostarsi nell’area del Punjab per osservare un altro aspetto della fast fashion industry. La zona è caratterizzata da un’elevata coltivazione di cotone (uno dei materiali principali nel tessile) e qui il commercio di sementi, pesticidi e fertilizzanti è in mano alla Monsanto, che ne stabilisce i prezzi. Il costo è ovviamente elevato e per acquistarli i contadini locali si indebitano talmente tanto da non riuscire a onorare il “finanziamento” ottenuto. Così, nell’arco degli ultimi sedici anni si sono registrati nei campi circa 250.000 suicidi. Inoltre, l’impiego massiccio di sostanze chimiche, oltre al terribile impatto sul territorio, ha causato, nella regione, una forte crescita di nuove generazioni con difetti congeniti, tumori e malattie mentali.
Ciò che il lavoro di Morgan ha cercato di illustrare è come questo sistema commerciale internazionale sia disfunzionale. Da una parte del mondo c’è lo sfruttamento senza scrupoli di umani e ambiente. Dall’altra, il cittadino occidentale medio che, come ha sottolineato lo scrittore Guido Brera, fatica per l’acquisto di beni importanti come casa, studi, assicurazioni, ma che può consolarsi e crogiolarsi nel comprare ogni giorno magliette sempre nuove. Una finta ricchezza che sta impoverendo tutti, tranne i brand. Il consumismo sta portando a perseguire valori come basso prezzo e buon profitto, ma chi ne paga il reale costo? Bisognerebbe riconoscere che «il denaro è un mezzo e la gente dovrebbe essere responsabile per come lo usa».
Sul medesimo argomento, in questo stesso numero di LucidaMente, si legga Chiara Ferrari, Il prezzo della moda: salari da fame e povertà.
Arianna Mazzanti
(LucidaMente, anno XIV, n. 164, agosto 2019)