Aprendo la sua carta di identità si sarebbe trovata la voce “cittadinanza italiana”. Padre e figlio, proprietari di un bar presso la stazione centrale di Milano, si accorgono di un ragazzo di colore che esce in fretta dal loro locale in compagnia di amici. Immediatamente il pensiero dei proprietari va all’incasso della giornata: che quel giovane “sospetto” lo abbia rubato? Parte una spedizione punitiva, nelle mani dei baristi spranghe e bastoni. Quando i due fanno ritorno al bar, dopo essere scappati lasciando a terra senza vita il diciannovenne Abdul Guibre, l’incasso è ancora là. I soldi, nessuno li aveva toccati.
La città, il tramite per una società multiculturale
Il compito di arginare il pregiudizio e le sue nefaste conseguenze è affidato alle città, le quali rappresentano il futuro dell’umanità.
Si stima che nei prossimi venticinque anni l’80% della popolazione mondiale vivrà nelle aree urbane, le quali dovranno affrontare una mescolanza di background etnici, culturali e religiosi diversi e a stretto contatto fra loro. Col proposito di migliorare le politiche nella lotta alla discriminazione e alla xenofobia, l’Unesco ha lanciato nel 2004 la Coalizione europea delle città contro il razzismo (Eccar), che ha elaborato e adottato un Piano d’Azione in dieci punti al fine di favorire l’integrazione razziale e prevenire gli episodi di razzismo. La Conferenza generale 2008 della Coalizione è stata ospitata dal Comune di Bologna dal 18 al 20 settembre e si è concentrata su come le singole municipalità possono promuovere lo sviluppo di una società urbana inclusiva.
Ion Diaconu, membro del Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale, punta l’attenzione sui primi cittadini: “Sono i sindaci a dover dare l’esempio attraverso il dialogo con tutti i gruppi sociali presenti sul territorio, organizzando assemblee per sensibilizzare la popolazione al fenomeno e promuovendo gli scambi interculturali come occasione di arricchimento personale”. Diaconu puntualizza che discriminare significa accettare il concetto che sussista disuguaglianza nei diritti umani, quindi ammettere l’esistenza di individui di livello inferiore.
Le strategie d’azione
Nel corso della conferenza, alcune tra le ottantadue città aderenti alla Coalizione hanno esposto le strategie adottate nel loro territorio.
Galway, cittadina di 72 mila abitanti situata sulla costa occidentale dell’Irlanda, già prima che venisse fondato l’Eccar, aveva sviluppato la strategia triennale anti-razzismo Towards a city of equals e, ora che fa parte della Coalizione, ha unito la strategia già esistente coi dieci punti del piano Unesco. Gli aspetti su cui si agisce sono: una maggior vigilanza, attraverso un forum della polizia, la promozione delle diversità culturali e le azioni attive della città per l’uguaglianza, come il premio interculturale per le aziende che favoriscono concretamente l’integrazione razziale.
Anche Grenoble, in Francia, ambisce a sfruttare la ricchezza multiculturale apportata dall’immigrazione, sviluppando un piano d’azione basato sulla Mixitè e volto a promuovere le diversità culturali. Le priorità dell’integrazione riguardano soprattutto l’abitazione e l’impiego.
Situazione analoga nella cittadina tedesca di Karlsruhe che conta 280 mila abitanti, di cui il 14,5%25 stranieri. Il Masterplan2015 si compone di linee guida al fine di creare una città inclusiva basata sul dialogo e la condivisione di esperienze. Per l’elaborazione di questa strategia sono stati ascoltati tutti i gruppi sociali: università, enti culturali e rappresentanti dei gruppi etnici sono stati coinvolti in prima persona in attività educative e artistiche, sfruttando accordi con teatri, scuole, biblioteche, palestre di danza e associazioni sportive. Nessuno è stato lasciato inascoltato e il risultato è stato un perfetto amalgama di stili di vita in cui ognuno si sente libero e accettato.
Nettamente differente la realtà italiana in cui le varie etnie costituiscono, un po’ per volontà e un po’ per costrizione, comunità omogenee e chiuse. Quasi dei ghetti sociali. In queste condizioni i messaggi vengono recapitati non attraverso il dialogo ma direttamente con l’azione, una sorta di giustizia personale. Come è successo a Castel Volturno, dove quei sei ragazzi ghanesi “se la sono cercata, spacciavano droga in un territorio in cui non dovevano stare” e dove i poliziotti si rassegnano: “Qui lo Stato non c’è più”. L’accusa di spaccio per quei giovani pesa come un macigno sulla comunità nera che non crede alla versione ufficiale: “E’ un’offesa che brucia sentire e leggere che erano delinquenti. La droga lì dentro non l’hanno trovata e non l’hanno trovata addosso ai morti. E non gliel’hanno trovata perché non avevano nulla a che fare con la droga. La polizia vi dice il contrario per dimostrare che alla fin dei conti non è successo nulla: soltanto criminali italiani che uccidono criminali africani”.
Madrid, invece, presenta un contesto in cui la coscienza collettiva della città ha assimilato l’immigrazione come aspetto integrante della cultura spagnola. Questo porta ad affermare che a Madrid il razzismo non rappresenti un problema e l’immigrazione sia considerata un fenomeno in crescita ma non preoccupante. La capitale spagnola ha comunque creato un Modello per la coesistenza sociale, con l’accordo tra tutti gli attori coinvolti sul territorio, che prevede misure specifiche correlate ai dieci punti del piano Unesco. Le quattro linee strategiche comprendono accordi con avvocati per fornire assistenza legale gratuita e con le università per incoraggiare l’istruzione. L’intuizione vincente della Spagna è stata rendersi conto del potenziale della forza lavoro immigrante in un periodo di recessione economica globale. Infatti, la crescita dell’intero Pil europeo è affidata ai flussi migratori: l’aumento di popolazione straniera è direttamente proporzionale all’aumento del Pil del paese. Gli immigrati sono, quindi, da considerare una ricchezza per il paese che li ospita.
Non è stato così per Daniel, nigeriano di ventiquattro anni e residente in Italia dal 2003, licenziato da una fabbrica di Lecco per aver segnalato ai superiori le angherie subite da un gruppo di colleghi. La risposta del capo reparto è stata: “Dài, non farci caso. Sono ragazzi. Tu pensa a fare il tuo lavoro e basta”. E Daniel è stato costretto a scegliere tra il lavoro e la propria dignità.
La realtà bolognese
Bologna è una delle città in cui i fenomeni immigratori sono molto intensi e rilevanti, tanto che l’8% della popolazione urbana è straniera e la città ospita oltre centosessanta etnie. Adriana Scaramuzzino, vicesindaco di Bologna, ammette che non è facile creare piani d’intervento. Si cerca di risolvere le questioni più urgenti senza appoggiare nessun favoritismo, come nell’assegnazione delle case popolari o nella sistemazione dei bambini nelle scuole materne. Inoltre, ci si concentra sui giovani e sulla loro educazione e si sostengono centri interculturali.
Bologna può essere considerata espressione di una società inclusiva, come ci assicura la vicesindaco: “La città è in crescita ed è in grado di offrire un’elevata qualità di vita, nonché ottime strutture sanitarie”. Ma alla nostra domanda se per la città sia in cantiere un piano d’azione sull’esempio di quelli europei, risponde senza presentare linee strategiche chiare e decise: “Si prevede sicuramente un nuovo piano strutturale della città in vista di una crescita urbana che percepiamo e non vogliamo ignorare. È una questione di responsabilità”.
L’immagine: una fase dei lavori del Convegno dell’Eccar tenutosi a Bologna.
Jessica Ingrami
(LM MAGAZINE n. 5, 15 ottobre 2008, supplemento a LucidaMente, anno III, n. 34, ottobre 2008)
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