Tempo fa l’Altra Sicilia, associazione di diritto internazionale a tutela della Sicilia e dei siciliani “al di qua ed al di là del Faro”, denunciò con rammarico che l’Amministrazione comunale di Marsala aveva deciso di non partecipare più alla Festa dell’Autonomia in programma a Mazara il 13, 14 e 15 maggio. Tale defezione sarebbe stata dettata dalla sovrapposizione di un altro festeggiamento: l’11, 12 e 13 maggio, ricorrenza del 145mo dello sbarco dei Mille e quindi della conquista garibaldina della Sicilia. Il sindaco di Marsala, evidentemente, ancora ritiene evento epocale l’impresa di Garibaldi e dei suoi “mille scriteriati”.
I dubbi sulla realtà del “Risorgimento” – Personalmente mi pare azzardato e ritengo sia antistorico continuare a celebrare l’opera del nizzardo, quando anche a Venezia ed in molti degli stati preunitari si contestano i Savoia, i plebisciti e le annessioni successive che ci condussero, negli “85 anni di troneggiamento”, ad un livello economico sociale e civile che fu il più basso della nostra storia, ed anzi significò l’inizio della nostra fine come nazione e popolo. Lo sbarco dei Mille fu l’atto fondamentale con cui iniziò la “liberazione” del Regno delle Due Sicilie dalla tirannide borbonica. Mi chiedo cosa ci sia da festeggiare e celebrare in quella che, fra tutte le dominazioni subite dal Mezzogiorno d’Italia, fu la più nefasta, crudele, oppressiva e sanguinosa. I piemontesi vennero nel Sud per non lasciare inascoltato il “grido di dolore che si levava dall’Italia tutta”; vorrei sapere chi li indicò e li investì del ruolo di “liberatori”.
La strategia imperialista dei Savoia – Io so solo che l’unico stato nell’Italia preunitaria che guerreggiava senza fine era il loro, il Regno di Sardegna, che di volta in volta era in guerra con gli stati limitrofi, con la tendenza ad espandersi a macchia d’olio, fagocitando quegli stati che ebbero la sventura di essere loro confinanti. Prima dei Savoia non risulta in alcun modo, nel periodo che stiamo considerando, che gli stati preunitari lottassero l’uno contro l’altro armato. Addirittura, re Ferdinando II ricusò al Congresso di Bologna del 1833 la possibilità di avere sotto la sua corona l’Italia unita, in quanto non avrebbe mai potuto e voluto combattere contro gli altri principi a lui legati da vincoli di sangue e di amicizia. Tali valori non tennero a freno i Savoia. Ma fare tante guerre costava tanti soldi, ed il Regno delle Due Sicilie di soldi ne aveva tanti; figurarsi che, dopo la spoliazione “garibaldesca” del Banco di Sicilia e di Napoli e il plebiscito, esso poté contribuire con più dei due terzi al tesoro dello stato unitario.
Una sorta di conquista coloniale – E fu questo, quello della rapina, l’incentivo più forte, assieme alle brame politiche di Francia ed Inghilterra, il motivo scatenante di questa occupazione compiuta, cosa eccezionale anche per quei tempi, senza alcuna formale dichiarazione di guerra. Fu una turpe conquista coloniale, nonostante la probabile adesione di siciliani che lottavano per l’indipendenza da Napoli e per la confederazione con l’Italia. Di emancipazione sociale ed economica non ne portò alcuna e “i morti di Bronte” lo dimostrano; quanto all’emancipazione politica, essa fu tradita non convocando il legittimo Parlamento di Sicilia, illudendo i siciliani per qualche anno col governo della Luogotenenza e poi, negli anni successivi, seppellendo definitivamente ogni illusione. Nei dieci anni successivi alla conquista morirono per via diretta o indiretta (brigantaggio, deportazione, emigrazione) più di ottocentomila regnicoli. Fu operata una damnatio memoriae a livello radicale e senza precedenti. Furono cancellati i monumenti, le lapidi, le ricorrenze, la toponomastica e tutto quanto poteva ricordare l’antico ed odiato Regno borbonico; su tutto fu imposta la croce sabauda! Avere in casa il ritratto qualcuno dei re Borbone, o un cimelio che li ricordasse, era motivo di essere passati per le armi, senza pietà.
Come Ulisse con Troia – La conquista del Regno delle Due Sicilie per molti versi può essere confrontata con quella di Troia. La conquista di esso da parte dei piemontesi, è ormai acclarato, fu il risultato non di epiche battaglie, non di volontà popolari, non di eroismi di condottieri, non di volere di compassionevoli dèi, ma, come quella di Troia, fu il risultato di inganno, tradimento e ferocia conquistatrice. Lì valse la furbizia, l’astuzia e l’assenza di scrupoli di Ulisse e del suo cavallo, che sotto l’aspetto di dono portava morte e rovina (Timeo Danaos et dona ferentes). L’eroismo di Ettore, il valore di Achille, la grandezza di Aiace, l’amore per Patroclo, diventano valori solo di contorno nella vicenda di Troia. Alla fine incombe il tradimento e la viltà che vincono e sovrastano, in un finale che non è più epico, i grandi valori umani e trascinano tutto in lutti e rovina, definitivi e senza appello.
La storia la scrivono i vincitori – Da noi l’ebbe vinta la corruzione, l’inganno, le false amicizie e, perché no, il manto di buone intenzioni false fin dall’origine che coprirono per molto tempo la realtà ed i veri fini. Altro che soccorrere il popolo anelante alla libertà! Il nostro fu l’assassinio di un regno, la prevaricazione di un popolo, un genocidio senza pari, una rapina senza scrupoli. Ma si sa che la storia la scrivono i vincitori. In Italia questo è più vero che altrove. Forse perché, come ogni popolo, abbiamo bisogno di una mitologia in cui riconoscerci; forse perché non abbiamo mai avuto una scuola di storici emancipati dalla politica; oppure perché siamo fatti così, semplicemente faziosi. E questo è dimostrato considerando che, su questioni come risorgimento, fascismo, comunismo, resistenza, ecc., sono state riempite intere biblioteche che hanno dato, e continuano a dare, da una parte e dall’altra, una visione parziale dei fatti, a volte distorta, altre volte del tutto falsa.
Il governo dei prefetti – Come aveva preconizzato Francesco II, l’eroe di Gaeta, con la conquista del Meridione e la sua fagocitazione in quell’entità artificiale e disarticolata che fu detta Italia, a noi meridionali non restarono nemmeno gli occhi per piangere; il Sud fu retrocesso a colonia periferica e Napoli e Palermo iniziarono ad essere governate da prefetti venuti dal Nord. E tutto questo dura ancora! Per cui, mi chiederei cosa ci sia di onorevole nel celebrare e ricordare gli invasori e colonizzatori della nostra terra e non privilegiare invece quanti si riuniscono per ricordare e celebrarne la dignità.
L’immagine: Garibaldi a Palermo (1860-1862, particolare) di Giovanni Fattori (1825-1908).
Antonio Nicoletta
(LucidaMente, anno I, n. 12, dicembre 2006)