Qualche mio vecchio parente o conoscente che è stato ospite in gioventù dei “collegi” cattolici, me ne ha sempre parlato con ribrezzo o pudore, per le violenze che vi si compivano, per le miserie (vitto scarso, punizioni, maltrattamenti), per l’infelicità che vi si respirava. Non so se sia vero, ma mi si diceva anche che negli orfanotrofi, quando, le domeniche, giungevano “in visita” coniugi sterili a scegliere chi “adottare” (come si fa oggi nei canili o nei gattili), i furbi “religiosi” – più spesso “religiose”, cioè suore – mostrassero i bimbi messi peggio (con handicap o tubercolosi o rachitismo, per esser più chiari) e celassero quelli in salute. Così si liberavano di un peso e delle fatiche conseguenti, ricevendo sempre identici contributi dagli enti statali… (r.t.)
“Si dice che se un bambino subisce violenza, sarà un adulto violento. Può darsi che sia vero. Vuol dire che io ho infranto la regola, oppure devo considerarmi miracolato o semplicemente fortunato (francamente non saprei quale dei due)”. Prima di essere una denuncia delle condizioni disumane e dei trattamenti ai quali erano sottoposti i bambini e i ragazzi all’interno degli istituti minorili negli anni Sessanta e Settanta, più simili a carceri e manicomi che a edifici scolastici, Il mio male custode (Città del Sole edizioni, pp. 210, € 12,00) di Ettore Caruso vuole essere un viaggio autobiografico con il quale ripercorrere gli anni vissuti in quei luoghi di detenzione e i momenti che avrebbero potuto marchiare indelebilmente la sua pelle, ma dai quali è riuscito a riscattarsi, grazie alla tenacia, alla forza d’animo e forse anche alla paternità.
La famiglia – Ettore Caruso nasce nel 1961 a Palermo da una ragazza madre, che lavora come domestica in Sicilia, originaria di Palmi, paesino dell’entroterra calabrese. Il padre, presunto militare di leva, scompare quando viene a conoscenza della gravidanza della donna. Ma la madre non viene reputata in grado di prendersi cura del figlio e, così, Ettore inizia il suo “viaggio” tra gli istituti minorili, già a pochi giorni di vita. Sono le suore del primo istituto di cui è ospite a chiamarlo Ettore. Tornata al suo paese, la madre inizia la convivenza con un affermato avvocato, che accoglierà anche il ragazzino nella propria casa. Tuttavia, la vergogna di quest’ultimo per il figlio illegittimo esplode in ripetuti atti di violenza ai danni del bambino. La madre decide di porre fine alla drammatica situazione, consegnandolo a un altro istituto di suore. Col tempo, la donna comincia a divenire un personaggio marginale, sbiadito, tanto che Ettore preferisce gli istituti religiosi alla vita familiare, rinnovata anche dalla nascita di un fratellino, frutto della relazione con l’avvocato.
I luoghi e gli istituti minorili – Dopo aver vissuto presso i primi due istituti di suore, Ettore viene mandato a Messina all’istituto di correzione Villa del Sole, ma l’apparenza inganna: il ricordo più vivo del luogo è quello della camicia di forza con la quale dorme supino per diversi anni. Anche negli anni successivi, quando non la indosserà più, dovrà assumere, per addormentarsi, sempre la stessa posizione, divenuta ormai rassicurante. Nell’istituto iniziano a venirgli somministrati degli psicofarmaci, probabilmente per tenere a bada il suo carattere aggressivo e vendicativo. Compiuti gli otto anni, viene condotto presso gli Istituti polesani per la cura e la tutela mentale, a Ficarolo, in Veneto, uno dei centri più grandi d’Italia negli anni Sessanta e Settanta, dove rimarrà fino ai dodici anni. Ci saranno poi i Missionari del catechismo, presso i quali resterà solamente un giorno. Il suo ultimo istituto di permanenza, la Piccola Opera Papa Giovanni di Reggio Calabria, è un ponte verso la libertà, verso la vita indipendente che riuscirà finalmente a affrontare dopo la maggiore età. Non sembra un istituto: niente inferriate, né camici bianchi, ma, al contrario, gentilezze e agi, come la possibilità di avere una stanza personale. Il primo appartamento nel quale vivrà da “persona libera” sarà a Reggio Calabria; poi si trasferirà in seminario e quindi con la moglie Lucia, dalla quale avrà due figli.
I protagonisti della sua esistenza – Dell’istituto Villa del Sole l’autore ricorda il bambino, affetto dalla sindrome di down, con il quale giocava sempre e lavorava in lavanderia e poi un altro, legato a una specie di guinzaglio trattenuto da un’infermiera. Rammenta che una notte il bambino le aveva lanciato un escremento in viso, mentre erano coricati con la camicia di forza, dalla quale l’altro bambino era riuscito a divincolarsi. Questo fatto lo traumatizzerà per diverso tempo. Solo l’intervento dell’inserviente che gli insegna un gioco con le dita riesce a farlo sorridere. A Ficarolo sono state tante le persone importanti: da Marco, il capo della banda rivale, a Fernando, il suo migliore amico; la psicologa Paola, che gli strappa il primo sorriso e gli permette di assaggiare per la prima volta, a nove anni, la pizza. Nella maestra Laura, invece, trova una seconda mamma: lei gli insegna a leggere e scrivere. Romeo è l’inserviente che, contravvenendo alle regole dell’istituto, permette ai ragazzi di uscire dall’edificio, andando alla scoperta del paese. Grazie al suo padrino della comunione, invece, impara ad andare in bicicletta, avendo, a volte, la domenica, la possibilità di pranzare con lui e di mangiare ottimi dolci. Don Italo Calabrò, direttore dell’ultimo centro dove è ospitato, è una delle figure più importanti per il riscatto suo e di quello dei tanti giovani che versavano nelle sue stesse condizioni: celebrerà le sue nozze.
La sua personalità – L’autore ammette di aver spesso reagito alle provocazioni, all’interno degli istituti, con la violenza. Alle notizie che lo addoloravano, reagiva buttando in aria tavoli e sedie: gli inservienti lo tramortivano con una siringa di valium e alcuni non esitavano a malmenarlo costringendolo a una degenza in infermeria. Con la stessa istintività, mette le mani al collo di un altro ragazzo, Mario, sempre pronto a infastidirlo, quasi fino a strangolarlo, e lancia un coltello contro il direttore della Piccola Opera Papa Giovanni, che si salva solo per un errore di mira. Anche per queste sue reazioni violente e inaspettate gli vennero somministrati psicofarmaci e per lo stesso motivo fu detenuto in istituti psichiatrici.
La sessualità e i rapporti interpersonali – All’interno degli istituti erano molto frequenti i rapporti omosessuali tra i ragazzi: Ettore ammette di aver avuto almeno un rapporto al giorno e spesso anche due o tre. “[…] Si fa dunque sesso di gruppo. […] Una sola cosa, che mi sento di dire, è che si preferiva il contatto fisico all’orgasmo”. A ventuno anni, scopre la sua identità sessuale con una prostituta. Da quel momento diventano abituali i rapporti con l’altro sesso: intrattiene diverse relazioni sessuali e tutte le ragazze lo lasciano, fatto che egli vive con tranquillità, perché, per lui, l’abbandono fa parte della quotidianità e della normalità. Solo con Lucia, sua moglie, troverà la stabilità sentimentale.
Il riscatto personale – “A dieci anni ho cominciato a dare del tu ai fantasmi che si nascondono nei meandri della mia mente. […] il mio merito, da bambino, è stato quello di affrontare un problema alla volta, senza aspettare che si accumulasse con altri. Sono sempre stato capace di uscirne fuori, da solo e a testa alta”. Le eredità lasciate dagli anni di permanenza negli istituti sono tante: dagli attacchi di panico, per i quali non vuole curarsi con farmaci per non divenirne dipendente, alle allucinazioni, all’impossibilità di dormire con la luce spenta. Tuttavia, grazie alla forza cresciuta in lui affrontando le violenze e i soprusi degli anni di detenzione, grazie alle persone che lo hanno aiutato a superare i momenti difficili, alla sua crescita prematura, alla paternità, o forse a quella dote che oggi la psicologia chiama resilienza, ovvero la capacità dell’uomo di affrontare e superare le avversità della vita, Ettore è riuscito a non scaricare sugli altri le violenze subite e a “normalizzare” la sua esistenza, nonostante sembrasse che la società non volesse dargliene l’occasione.
L’immagine: la copertina del libro di Ettore Caruso.
Francesca Gavio
(LucidaMente, anno IV, n. 38, febbraio 2009)