Sopravvissuta ad Auschwitz e a Bergen-Belsen, è stata una figura centrale del femminismo e dell’integrazione europea: la sua personale testimonianza sulla deportazione nella biografia edita da Stock
Ogni considerazione sulla narrativa della Shoah non può prescindere da Simone Veil, e questo non solo per il valore altamente simbolico della sua figura (è stata la prima donna presidente del Parlamento europeo), ma in quanto testimone dell’Olocausto. La sua autobiografia aperta, Una vita (Une vie, Stock éditeur, 2007, pp. 272; tradotta in Italia per Fazi da Francesca Minutiello nel 2010), attraverso il dispositivo testimoniale, tende a creare lo sfondo di una catastrofe che costituisce un unicum nella storia del secolo scorso. Il modello letterario scelto vuole essere, così, un documento oggettivo e autentico per dare forma all’esperienza vissuta.
Le pagine del suo racconto scaturiscono da un faticoso viaggio a ritroso nella memoria e ci consentono di accedere non soltanto alla vicenda personale, che racchiude idealmente quella di tanti altri deportati, ma di cogliere anche fino a che punto il nazionalsocialismo ha condizionato le scelte professionali ed etiche della Veil. Come la maggior parte dei sopravvissuti, Simone, classe 1927, nata a Nizza, non ha trovato subito il coraggio di raccontare. Studentessa presso la Facoltà di Scienze politiche, il 4 marzo 1947, all’età di vent’anni, offre la sua prima testimonianza all’Assemblea nazionale. Poi, il silenzio per circa trent’anni, per il timore di non esser creduta e per l’indifferenza di tutti, come lei stessa denuncia nel 1988, nel corso di un’emissione radiofonica: «Se non ne abbiamo parlato è perché nessuno voleva capirci e ascoltarci. Perché è insopportabile parlare e non essere compresi. È davvero insopportabile! E ci è capitato così spesso di essere interrotti mentre cominciavamo a ricordare…» (L’Histoire en direct). Sono tre le date che segnano il suo percorso umano, spazzando via, in modo violento, la sua infanzia: il 15 aprile 1944, quando arriva ad Auschwitz, con sua madre e sua sorella; il 18 gennaio 1945, quando lascia il campo di sterminio; il 23 maggio 1945, quando rientra in Francia. «Posso dimenticare molte cose – scrive –, ma non queste date. Rimangono incollate al mio essere più profondo come il tatuaggio del numero 78651 sulla pelle del mio braccio sinistro. Saranno per sempre le tracce indelebili di ciò che ho vissuto» (p. 50).
Quindi, nel terzo capitolo, intitolato L’enfer, ci consegna una ricostruzione della quotidianità nel lager e della marcia forzata per raggiungere Bergen-Belsen. Controllato a distanza dagli aguzzini, spaventati dal numero di contagi, legati anche alle forme interne di cannibalismo, questo campo viene descritto come il simbolo dell’agonia della Germania, prossima alla sconfitta, che rende vulnerabili come le proprie vittime «coloro che si erano illusi di essere i padroni del mondo» (p. 73). Contrariamente a molte memorie che affrontano lo stesso orrore in modo ancora più dettagliato, nell’opera della Veil la narrazione della prigionia si esaurisce in circa 38 pagine, per lasciare spazio a una volontà di “rinascita” e di ricostruzione individuale – ai quali sono dedicati gli altri capitoli – che si concretizzeranno con la laurea in Giurisprudenza, l’accesso alla magistratura, la carica di ministro della Sanità sotto la presidenza di Giscard d’Estaing, la promulgazione della legge sull’aborto il 17 gennaio 1975 e la presidenza del Parlamento europeo. Senza, però, mai dimenticare.
Ne La lumière des Justes, che chiude l’opera, è possibile leggere una della pagine forse più belle della Storia francese: l’ammissione di responsabilità, per la quale Simone si è sempre battuta, da parte dello Stato nei crimini commessi contro gli ebrei: «un atto di coraggio» (p. 269), cui sono seguite la decisione di costituire una commissione incaricata di studiare la spoliazione di cui era stata vittima la comunità ebraica e quella di attuare l’insegnamento della storia della Shoah nelle scuole. Il 18 gennaio 2007, la Veil rende omaggio, con il presidente della Repubblica francese Jacques Chirac, ai 2.725 Giusti, definendo la loro memoria «un tesoro la cui salvaguardia è tanto più preziosa in un mondo che sembra minacciato non solo dal disordine climatico, ma dal ritorno degli integralismi, dopo mezzo secolo in cui ci si era illusi del progresso della tolleranza e dell’ecumenismo» (p. 280). Le ultime pagine ci restituiscono l’immagine di un’ottantenne il cui ricordo dei giorni bui che hanno accompagnato la sua giovinezza è ancora vivido al punto da far incidere sulla sua spada di accademico il nome di Birkenau e di farvi scolpire le fiamme dei forni crematori. E, ciononostante, la Vita ha avuto la meglio, come ci dice la stessa Veil a conclusione della propria autobiografia: «I miei pensieri mi portano irresistibilmente verso la mia famiglia, quella che ho costruito con Antoine. Penso ai nostri figli, nipoti, bisnipoti, ai nostri pranzi del sabato […] ai quali si sono succedute le cene della domenica sera, all’affetto che ci lega gli uni agli altri […]. Alla fine della settimana saremo in ventisette a festeggiare il mio compleanno» (p. 283).
Morta nel 2017, dal 1° luglio 2018 Simone Veil riposa nel Pantheon insieme a quanti hanno reso grande la Francia, per aver speso la sua vita a favore del dialogo e della collaborazione tra i popoli e per avere reso omaggio, con la sua testimonianza, alle famiglie francesi che hanno salvato molti bambini ebrei mettendo a rischio la propria vita. Queste le motivazioni contenute nel discorso solenne pronunciato in occasione della sua sepoltura nel Pantheon di Parigi dal presidente Emmanuel Macron.
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Marilena Genovese
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 193, gennaio 2022)