Il saggio “Domenikon 1943” (Mursia) di Vincenzo Sinapi rievoca l’eccidio degli abitanti di un villaggio della Tessaglia e altri crimini compiuti dal nostro esercito nella Seconda guerra mondiale
Il 16 febbraio 1943 alcune centinaia di soldati italiani della 24ª Divisione fanteria «Pinerolo» incendiarono per rappresaglia il villaggio di Domenikon (Δομένικο secondo la toponomastica greca) in Tessaglia e uccisero circa 150 civili maschi di età compresa fra i 14 e gli 80 anni, accusati di aver aiutato un gruppo di partigiani dell’Elas (Esercito popolare greco di liberazione) che avevano teso un’imboscata alle camicie nere del gruppo «L’Aquila».
Di questo eccidio dimenticato dai libri di storia parla il recente saggio Domenikon 1943. Quando ad ammazzare sono gli italiani (Mursia, pp. 248, € 18,00) del giornalista Vincenzo Sinapi. L’autore fa parte di quel novero di studiosi – tra i quali ricordiamo in particolare Angelo Del Boca e Gianni Oliva – impegnati a sfatare il mito degli «italiani, brava gente». Furono soprattutto alcuni letterati ottocenteschi (Edmondo De Amicis, Emilio Salgari, ecc.) a consacrare un’immagine edulcorata e stereotipata della «bontà italica», che nel Secondo dopoguerra venne riproposta dalla grande stampa nazionale e in seguito anche da alcuni noti registi cinematografici, come Giuseppe De Santis, Guy Hamilton e Gabriele Salvatores (vedi Un mito assurdo che dura ancora). Qualche giorno prima della strage il generale Carlo Geloso – comandante delle Forze italiane di occupazione della Grecia – aveva emanato una circolare nella quale si ordinava «una guerra senza quartiere ai “ribelli”» e si raccomandava anche l’eliminazione dei “favoreggiatori”, cioè dei civili che aiutavano i partigiani greci.
Il 16 febbraio 1943 le camicie nere del gruppo «L’Aquila» stavano scortando un’autocolonna di mezzi militari che portava viveri da Larissa verso Elassona, quando – verso le 11 del mattino – vennero attaccate da circa 80 partigiani greci che, pur uccidendo nove fascisti, furono decimati e messi in fuga dalla reazione degli italiani. Il generale Cesare Benelli decise di punire per rappresaglia la popolazione del piccolo villaggio di Domenikon e affidò l’incarico della repressione al tenente colonnello Amedeo de Paula che, dopo averne catturato gli abitanti, fece incendiare e distruggere il paese con l’ausilio dell’aviazione italiana.
Alcuni civili greci tentarono la fuga, ma furono falcidiati dai mitra, mentre il resto della popolazione fu divisa tra «uomini validi da una parte e donne, vecchi e bambini dall’altra». I primi furono sottoposti a violenti interrogatori (con dodici esecuzioni immediate), mentre i secondi vennero deportati nel borgo limitrofo di Milogusta. In tarda serata 97 prigionieri superstiti vennero costretti a marciare per circa tre ore fino a una radura posta davanti al bosco di Damasuli, dove furono poi fucilati sommariamente. Le esecuzioni si protrassero all’incirca fino alle tre del 17 febbraio: vennero risparmiate solo tre persone (il capovillaggio e due suoi parenti) che avevano denunciato alcuni partigiani, mentre altri sei condannati a morte riuscirono fortunosamente a salvarsi. Il bilancio delle vittime non fu mai stabilito con certezza: nei resoconti italiani il loro numero è stimato tra i 137 e i 154, mentre nelle fonti greche «tra la cifra minima di 152 […] e la cifra massima di 177». Alla fine del Secondo conflitto mondiale il governo greco rinunciò a perseguire i criminali italo-tedeschi, anche perché la nazione ellenica fu dilaniata da una sanguinosa guerra civile che contrappose comunisti e monarchici. La strage del 16-17 febbraio 1943 fu dimenticata per lungo tempo e solo nel 1998 il villaggio di Domenikon venne riconosciuto come «città martire».
Tuttavia, per sopraggiunta prescrizione dei reati, il Tribunale di Larissa archiviò una successiva denuncia presentata dai parenti delle vittime. Un identico fenomeno di rimozione dei crimini nazifascisti si verificò in Italia, poiché la sua classe dirigente postbellica fu fortemente condizionata dalla Guerra fredda tra Usa e Urss e dall’adesione del Belpaese alla Nato. I governi italiani, infatti, non chiesero mai l’estradizione dei criminali tedeschi responsabili di molti eccidi dopo l’8 settembre 1943, mentre la Procura generale militare di Roma tenne addirittura nascosti fino al 1994 – nel famigerato “armadio della vergogna” – 695 fascicoli sulle stragi commesse nella nostra penisola dai nazifascisti (vedi Vanessa Roghi, L’armadio della vergogna, in https://laricerca.loescher.it; Franco Giustolisi, L’armadio della vergogna, Nutrimenti, 2004).
Nel Secondo dopoguerra la Commissione delle Nazioni unite per i crimini di guerra ricevette una lista con oltre 1.500 segnalazioni di militari italiani macchiatisi di gravi reati durante le operazioni belliche. Nessuna seria azione penale fu però intrapresa contro di loro e prevalse invece la linea politica del perdono generalizzato: nel 1946, infatti, il I governo De Gasperi concesse – su proposta del Ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti – l’amnistia per i reati comuni e politici punibili fino a un massimo di cinque anni di reclusione, mentre nel 1951 il Tribunale militare territoriale di Roma assolse 33 imputati – tra i quali i generali Mario Roatta e Mario Robotti – accusati di vari crimini di guerra. Anche l’eccidio di Domenikon venne dunque rimosso dalla memoria storica italiana e fu dimenticato per un lungo periodo di tempo. A rivangarne il ricordo dopo sessantacinque anni fu l’articolo di Enrico Arioso Grecia 1943: quei fascisti in stile SS (in L’Espresso, anno LIV, n. 9, 6 marzo 2008; vedi anche Roberto Renzetti, Grecia 1943: quei fascisti stile SS, in https://fisicamente.blog). L’autore, oltre a commemorare la strage dimenticata, recensì anche il documentario La Guerra sporca di Mussolini di Giovanni Donfrancesco, basato sulle ricerche della storica Lidia Santarelli, che venne successivamente mandato in onda su History Channel (ma fu boicottato dalla Rai).
Le notizie fornite da Arioso e Donfrancesco indussero Sergio Dini, sostituto procuratore militare di Padova, a chiedere formalmente ad Antonino Intelisano, procuratore militare di Roma, l’apertura di un fascicolo conoscitivo sulla strage di Domenikon con due capi d’imputazione previsti dal Codice penale militare di guerra: «uso di mezzi di guerra vietati e rappresaglie ordinate fuori dai casi consentiti dalla legge». Nel 2009, a parziale riparazione dell’eccidio, Giampaolo Scarante – ambasciatore italiano ad Atene – chiese scusa pubblicamente ai familiari delle vittime e al governo ellenico.
L’inchiesta giudiziaria, tuttavia, si concluse nel 2010 con l’archiviazione da parte del giudice per le indagini preliminari, Isacco Giorgio Giustiniani, poiché, oltre alla sopraggiunta prescrizione dei reati, non si arrivò mai «all’individuazione di persone in vita responsabili». Nel 2011 Efstasios Psomiadis, insegnante di Matematica e figlio di una delle vittime di Domenikon, presentò l’ennesima denuncia a Marco De Paolis, nuovo procuratore militare di Roma, che aprì un’ultima inchiesta con l’imputazione – non soggetta a prescrizione – di «omicidio pluriaggravato». Anche questa indagine è stata però archiviata nel 2018 dal gip militare di Roma Elisabetta Tizzani, poiché «tutti i principali autori del fatto […] risultano essere deceduti ovvero […] non compiutamente localizzati e individuati». L’eccidio di Domenikon rientra comunque nei tanti crimini di guerra ascrivibili agli italiani che sono stati pienamente accertati sul piano storico, come ricorda Sinapi in un passo del suo saggio: «Si stima che siano stati circa 400 i centri abitati rurali distrutti dalle forze di occupazione italiane o congiunte italo-tedesche durante la brutale campagna condotta nei primi mesi del 1943 nella Grecia continentale». Occorre infine ricordare anche altre stragi di civili compiute dalle truppe fasciste in Albania e Jugoslavia tra il 1939 e il 1943, nonché nei precedenti conflitti coloniali in Libia ed Etiopia dove si distinsero per ferocia i marescialli Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani (vedi Crimini di guerra italiani in https://it.wikipedia.org).
Le immagini: la copertina del libro di Sinapi; alcuni dei morti della strage di Domenikon (fonte: http://www.24grammata.com/?p=1346); la cartina geografica della Tessaglia (foto dell’autore); la stele con i nomi di tutte le vittime del massacro (fonte: http://www.elassona.com.gr).
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno XVI, n.187, luglio 2021)