La salvaguardia dell’ambiente e di conseguenza della salute umana, le recenti prospettive nel campo della biomedicina, gli studi sugli organismi geneticamente modificati, le mutazioni del Dna, le patologie ereditarie…
Sono alcune delle innovative tematiche del nostro tempo, alcune emergenti, altre già entrate nella prassi, che richiedono nuove professionalità, lo sviluppo di competenze specifiche e, soprattutto, una conoscenza approfondita del problema. Peraltro, quest’ultima da sola non basta, se ad essa non è affiancato un utilizzo ottimale di strumentazioni sofisticate che, adoperate in maniera opportuna, contribuiscono a migliorare l’operatività degli specialisti con indiscutibili vantaggi per i molteplici aspetti correlati.
E proprio in questo senso è importante porre attenzione al ruolo svolto dalle nuove tecnologie automatizzate di analisi, i biosensori, e alla loro applicabilità nella ricerca.
I metodi tradizionali: Elisa e Dot-Elisa – Agli specialisti del settore è noto che il test Elisa (enzime linked immuno sorbent assay), è una tecnica sierodiagnostica semplice, basata su una reazione antigene-anticorpo, legata all’utilizzo di enzimi (sensori). L’azione dell’enzima produce una colorazione rilevabile ad occhio nudo o attraverso un fotometro appropriato: il lettore Elisa. Un’ulteriore specializzazione della tecnica consiste nell’esame detto Dot-Elisa, che utilizza materiali quali la nitrocellulosa (supporto o trasduttore) e lo iodio (reagente). Si tratta delle metodiche più utilizzate per identificare antigeni responsabili di talune patologie infettive. Queste tecniche hanno un’elevata specificità, costi ridotti e una maggiore rapidità di risposta, che permette una diagnosi in tempi brevi.
I biosensori nella biomedicina – La diagnosi di alcune patologie non è sempre immediata, e ciò causa nel paziente e nei suoi familiari una sensazione di impotenza e abbattimento che può sfociare anche nella depressione, in questi casi assume una rilevante importanza accorciare i tempi delle diagnosi. I biosensori sono sistemi innovativi, capaci di diagnosticare, tra l’altro, anche predisposizioni genetiche, primi stadi di malattie, velocizzando così accertamenti e terapie specifiche. Tale premessa si è resa necessaria per far comprendere al lettore che, rispetto alle metodiche precedentemente indicate, i biosensori sono più pratici e ancor più veloci e non necessitano di marcatori proteici. Anche le mutazioni geniche a livello del Dna possono essere rilevate in poche ore rispetto ai due giorni richiesti dalle analisi attualmente praticate. Non è richiesto l’utilizzo di isotopi radioattivi, altro evidente vantaggio per la salute dell’operatore. I sensori nanogravimetrici si basano sulla possibilità di rilevare la presenza di proteine, ormoni, sequenze di Dna, misurando la variazione di massa che si ha nel momento in cui tali analiti legano le molecole complementari depositate su un quarzo piezoelettrico. Tale legame determina una variazione nella frequenza di risonanza, che invia un segnale elettrico misurabile.
Il successo delle idee – Un esempio pratico di successo nell’utilizzo delle nuove tecnologie ci è dato da John Craig Venter che aderì al progetto “genoma umano”, nato nel 1990 con lo scopo di determinare la sequenza del Dna. Lui e Francis Collins furono i protagonisti di questa ricerca, e nel giugno del 2000 erano a fianco di Bill Clinton, quando venne annunziata al mondo la decifrazione del genoma umano. L’abilità di Venter e la rapidità dei suoi studi sono legate all’utilizzo di un supercomputer da ottanta milioni di dollari, capace di esaminare su centinaia di geni le sequenze del Dna. La conoscenza della sequenza di un gene, tuttavia, non è sufficiente a spiegare l’espressione fenotipica delle proteine codificate da esso, perché molteplici fattori influiscono sulla sua funzionalità. In tal senso i biosensori aprono nuove prospettive nel campo della ricerca medica.
Applicazioni in campo ambientale ed agroalimentare – Uno degli obiettivi previsti dal protocollo di Kyoto è di ridurre per il periodo 2008-2012 il totale delle emissioni di gas ad effetto serra, almeno del 5 per cento rispetto ai livelli del 1990. Questa la media cui devono adeguarsi i paesi dell’Unione Europea aderenti al protocollo. Per l’Italia, in particolare, la riduzione deve essere del 4,5 per cento rispetto al 1990. L’utilizzo di una rete di centraline di monitoraggio, basate su tecniche biosensoristiche capaci di rilevare precisamente le quantità di gas emesse nell’ambiente, rappresenta sicuramente un passo importante per poter operare una diminuzione del quantitativo emesso nell’atmosfera, laddove se ne riveli una quantità eccessiva. Questa tecnica è applicabile ovviamente anche per telemonitorare l’impatto ambientale di discariche, inquinanti prodotti da attività industriali ed artigianali, nel campo agroalimentare, ecc.
La sorpresa dell’iniziativa italiana – Da quanto esposto, risulta, dunque, di grande rilevanza l’apporto di tali nuove tecnologie. Oggi l’Italia può vantare ottimi risultati nel campo della ricerca, nell’ambito delle applicazioni biomediche e biodiagnostiche grazie all’utilizzo dei biosensori. Tra le aziende italiane più rappresentative del settore, la Bioage (www.bioage-srl.com) di Lamezia Terme è impegnata, tra l’altro, nella ingegnerizzazione di prototipi, e nei campi dell’elettronica e della meccanica. Essa, proprio di recente, ha presentato ambiti e modalità dell’applicabilità dei biosensori, in occasione del workshop Sensori chimici per applicazioni biomediche, organizzato dal Dipartimento di Chimica industriale e Ingegneria dei materiali della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Messina.
L’immagine: Cella a flusso per liquidi.
Dora Anna Rocca
(LucidaMente, anno I, n. 4, maggio 2006)