Intervista al collettivo che terrorizza gli “sfruttatori” (“di destra” e “di sinistra”) dei lavoratori, denunciando pubblicamente le loro malefatte
Le Maschere Bianche di Bologna sono un collettivo nato per denunciare gli ormai generalizzati episodi di sfruttamento e iniqua precarizzazione dei lavoratori, nel capoluogo emiliano e non solo. Oggi la situazione si è fatta più grave a causa di crisi economica, globalizzazione/ideologia globalista, immigrazione da spremere e, infine, pandemia da coronavirus. Il collettivo ha un proprio portale, Il Padrone di Merda, e una propria pagina Facebook. Interessati dalle tematiche affrontate e dalle modalità di denuncia, li abbiamo intervistati.
Siete un collettivo di lavoratori che ha deciso di recensire i “Padroni di merda” (PDM) presentandosi, munito di maschere bianche, davanti alle loro attività e denunciando quello che fanno. Come siete arrivati a questa modalità d’azione?
«L’idea iniziale è partita da un gruppetto minuscolo, di poche persone. Penso che a darci l’ispirazione sia stato un po’ il format de Il Coinquilino di Merda (una pagina Facebook ove gli utenti inviano recensioni sui comportamenti assurdi dei propri coinquilini, ndr) e un po’ quello di Tripadvisor, che appone il proprio bollino sui locali come certificato di qualità. L’idea era dunque quella di recarsi di fronte ai locali di merda, posti dove si sfrutta, ci sono molestie e così via, e recensirli. Ma sanzioniamo anche pratiche perfettamente legali: quando ci comunicano di un tirocinio pagato tre euro l’ora, nonostante sia legale, lo troviamo una cosa ingiusta e dunque lo segnaliamo. Alla base c’era dunque il proposito di denunciare certe condizioni attraverso recensioni negative e cattiva pubblicità. Infatti, la prima azione avente come oggetto un bar in piena zona universitaria è partita dal racconto di una ragazza che conoscevamo. La situazione di molestie in quel posto è iperconosciuta: assume solo ragazze, le tiene poco, si mettono loro le mani addosso. Ci siamo chiesti perché nessuno facesse nulla e non prendesse una posizione. E abbiamo deciso di intervenire».
Perché usate le maschere bianche?
«Ci siamo detti che, essendo dei lavoratori, ci sarebbe servito mascherare la nostra identità. Innanzi tutto per non dare alcuna connotazione politica alla nostra azione: siamo semplicemente lavoratori che segnalano e combattono i Padroni di Merda. E, in secondo luogo, per evitare ripercussioni personali, come il licenziamento. Anche perché, volendo allargare la nostra piccola realtà, dobbiamo garantire l’anonimato dei nostri membri e la tutela dei loro diritti. Ecco il perché delle maschere bianche».
Abbiamo visto che su Facebook, oltre alla vostra, iniziano ad esserci altre realtà come quella de Il Padrone di Casa di Merda o del PDM Cosenza. Considerate i social un modo per riacquisire potere contrattuale oppure sono semplicemente un mezzo di divulgazione di quello che poi è l’azione concreta?
«Entrambe. L’azione è fondamentale. Lo diciamo a tutti quelli che ci scrivono: sì, abbiamo un avvocato e sì, possiamo scriverne su Facebook, ma la parte essenziale è quello che può essere chiamato lo “sputtanamento”, cioè la cattiva pubblicità. Non credevamo che avremmo trattato soprattutto ristoranti, noi pensavamo che avremmo segnalato Padroni di Merda. A Bologna sono soprattutto ristoratori, essendo il centro pieno di ristorantini, pub e locali. E cosa li danneggia di più? Così come su Tripadvisor si dice “Sono andato lì e ho mangiato male”, noi scriviamo “Ho lavorato lì e mi hanno trattato male”. E questo aiuta molto. È esemplare il caso di una holding con sede centrale a Roma, che si occupa di somministrazione di lavoro, anche se legalmente non potrebbe e, per di più, non paga contributi né trattamento di fine rapporto. Cercando su Google quella holding, spesso compaiono nostre azioni o interviste che ci hanno fatto a riguardo. Così, chi vede un loro annuncio e vorrebbe lavorare per loro, scopre che in realtà sono dei truffatori. Per questo il social è fondamentale: più cresce, più è grande la cattiva pubblicità».
Colpisce come, fra quelle da voi visitate, ci siano un sacco di realtà green. C’è, secondo voi, un legame fra questa ossessiva cura dell’immagine e dell’etica e poi l’incoerenza che si svela dietro questa facciata?
«Sì. Diciamo che a Bologna ci sono due tipi di PDM. Quello classico, predatore, che molesta. Arrogante e in odor di mafia. E poi c’è quello che chiamiamo il PDM “di sinistra”. Quello che è magari legato a un assessore “progressista” e che si riempie la bocca di bio o green su cui fonda il proprio marketing. Poi, in realtà, funziona come il 90% dei ristoranti, con lavoro a nero e tirocini ingiusti. Come nel caso del supermercato biologico che proponeva ai tirocinanti una paga di circa 3,80 l’ora. Noi siamo andati lì facendo notare che un chilo di zucchine, da loro, costa più di un’ora di lavoro. Se un chilo di zucchine costa 4 euro, potrebbero pagare di più i dipendenti. I PDM di sinistra si sentono i più umani, ma sono i più insidiosi perché, a giudicare dall’immagine che danno, chi va a lavorare lì crede di essere trattato bene e invece si ritrova a essere sfruttato come in qualsiasi altro locale. Vi sono diversi pub che attirano una clientela informata, sensibile alle questioni etiche, per cui spende più soldi del normale. Perciò, quando li attacchiamo, la cattiva pubblicità funziona particolarmente. Per noi, non fa alcuna differenza se il padrone sia di sinistra o di destra. I PDM sono di tutti i colori, soprattutto a Bologna, che è una città storicamente di sinistra».
C’è mai stato un padrone che ha avuto un atteggiamento di dialogo e che, dopo una vostra azione, ha deciso di introdurre cambiamenti in positivo?
«Sì, il presidente di una catena alimentare green. Poiché la gente va lì proprio per una svolta etica, lui aveva molto da perdere e non poteva accettare di essere colto con le mani nel sacco. E ha dunque tolto il tirocinio e abbiamo visto che non l’ha più proposto. Saremo comunque attenti a nuove segnalazioni ed eventualmente pronti a tornare da lui. Solitamente, più che cambiare, i PDM falliscono. È il caso di un centro estetico che doveva un sacco di soldi ai lavoratori. Noi abbiamo denunciato la situazione varie volte ed è stata una vittoria che abbia chiuso. O della succitata holding, che ha chiuso la sede a Bologna in quanto ci andavamo di continuo. In tanti altri hanno chiuso, un po’ anche grazie al nostro intervento. Molti dei lavoratori controllano la nostra mappa così da sapere che, in certi luoghi, ci sono PDM».
Il collettivo sembra essere molto efficace nei suoi interventi. Ma, allora, perché coloro che, fra la classe medio-bassa, prendono una posizione come la vostra sono spesso visti come sovversivi? Perché la maggioranza sfruttata non interviene in tal senso?
«Diciamo che il PDM funziona anche e soprattutto perché riesce a far riavere i soldi e questo, per molti lavoratori, è il bisogno principale. Certo, molti partecipano e sono contenti, ma non tutti. Oggi, quello che facciamo è divisivo, mentre trenta o quarant’anni fa era una cosa normalissima. Se ci pensi bene, ciò che facciamo è andare in un locale, lasciare volantini, parlare… nulla di che. Sì, siamo mascherati, ma, se un agente di polizia vuole trovarci, può farlo senza problemi. E infatti è successo. Viviamo in un’epoca abbastanza anestetizzata alla lotta politica, in cui le formazioni sociali che se ne occupavano, partiti e sindacati, hanno perso molta fiducia, anche perché non se la sono meritata».
Anche i sindacati?
«I sindacati non fanno assolutamente nulla per i lavoratori, hanno come unico interesse quello di avere potere contrattuale: Maurizio Landini della Cgil, quando qualcuno propose il salario minimo, rispose di no. Perché? Sembra assurdo, ma la Cgil perderebbe potere nel fare i contratti nazionali. Essa è presente quasi solo nella sfera pubblica e nelle grandi aree industriali, nella ristorazione, nel commercio e nel terzo settore è totalmente assente, così come altri sindacati. Diverse lavoratrici venute da noi erano prima state all’Ispettorato del lavoro, alla Cgil e non hanno ricevuto risposte. Gli sono stati unicamente estorti i 50 euro di tesseramento. Quindi, nel 2021 siamo disabituati alla lotta politica e questo è causato anche da sconfitte storiche, in cui ci hanno insegnato che lottare non serve a nulla. Noi non crediamo sia vero: lottare serve, servirà sempre e pensiamo, con il nostro lavoro, di riabituare le persone a lottare anche al di fuori di Bologna. Nonostante qualche denuncia, che così come arrivano scompaiono, riteniamo legittimo quello che facciamo».
Molti lavoratori, nonostante siano d’accordo con le vostre battaglie, non possono prendersi il rischio e l’onere di scioperare, o semplicemente temono il licenziamento. Come conciliereste una necessità economica con il bisogno di opporsi allo status quo?
«Viviamo in un periodo di costante crisi: trovare lavoro è difficilissimo, c’è una disoccupazione altissima e sappiamo tutti che non si può saltare da un lavoro all’altro e che, se lo si perde, è un bel problema, soprattutto per chi ha una certa età e una famiglia da sostenere. Noi, infatti, cerchiamo di proporre e implementare forme nuove di lotta, che possono adattarsi al contesto attuale. A questo servono le maschere: a proteggersi. Molti ci fanno notare che “negli anni Sessanta si lottava a volto scoperto”. Ma adesso siamo nel 2021 e noi vogliamo, con ogni mezzo necessario, tutelare il lavoratore che non può permettersi di perdere l’impiego. Inoltre l’azione dura una decina minuti ed è più fattibile e funziona meglio rispetto a uno sciopero, soprattutto nel terzo settore. Ormai gli scioperi hanno una ritualità: quando, seppur raramente, si proclamano nei grandi siti industriali, il padrone è abituato ad affrontarli. Dunque, se queste forme non funzionano o non piacciono ai lavoratori, è il caso di trovarne altre. E spesso c’è da affrontare la paura delle persone: far capire loro che è possibile affrontare i padroni, si possono cambiare le cose, anche se è difficile. Abbiamo visto come in quest’anno di crisi, probabilmente il momento più propizio per ribellarsi, non ci siano state praticamente proteste».
Nella nostra società è fortemente radicata la convinzione che ognuno sia pagato in base alla propria capacità di produrre valore. Questo legittima disparità di retribuzione enormi fra un manager e il suo operaio. Come mai anche nelle classi “popolari” resta saldo questo pensiero?
«Beh, perché ci hanno inculcato un falso concetto di meritocrazia. Sono 28 anni che sento questo ragionamento. La precarietà è iniziata negli anni Ottanta: la Taddeo, la Biagi e il Jobs Act sono tutte riforme che, a distanza di dieci anni, hanno precarizzato il mercato del lavoro. Per giustificare questa precarietà ci hanno detto che va avanti chi se lo merita. E solitamente se lo merita chi detiene già ricchezza. Abbiamo visto durante questa pandemia chi veramente è indispensabile: gli infermieri, la logistica, i fattorini, gli insegnanti… Nulla toglie che continuino a propinarci la solita solfa: i giovani sono “choosy”, sdraiati, mammoni, eccetera. E, senza un’alternativa politico-culturale che proponga qualcos’altro, si va avanti con l’insegnamento dei datori di lavoro, dei PDM».
Tra le critiche che vi sono più mosse, c’è il fatto di non verificare le segnalazioni che vi arrivano e quindi di diffamare senza alcun fondo di verità. Come argomentereste contro questa posizione?
«Noi valutiamo le segnalazioni che ci arrivano e, talvolta, è molto semplice rendersi conto della loro veridicità. Basta fare un salto nel posto di lavoro e vedere la situazione. Quando arriva la seconda segnalazione per uno stesso datore, allora parliamo con i lavoratori, cerchiamo di capire anche tramite i contratti e le prove tangibili, li facciamo anche dialogare con un avvocato. La testimonianza è relativamente semplice da verificare, anche perché noi raccogliamo testimonianze su Facebook e poi andiamo sul luogo. Nei due anni di esistenza del collettivo, durante cui abbiamo segnalato all’incirca una trentina o quarantina di PDM a Bologna, ci è arrivata una sola denuncia per diffamazione: un docente universitario che aveva molestato una lavoratrice; però ci sono gli screen a prova di ciò, dunque aspettiamo solo di essere convocati in tribunale. Certo: io stesso, se arrivassero venti persone mascherate davanti al mio locale per accusarmi di una irregolarità che non ho commesso, li querelerei subito. Se, invece, quelle cose le avessi fatte, non farei mai partire una denuncia perché, poi, in tribunale dovrebbero fare accertamenti. Recentemente il giudice che ci aveva denunciato per una vicenda relativa a un bar ha dichiarato a processo che il dire “padrone di merda” non qualifica una diffamazione».
Se volete aggiungere qualsiasi cosa, anche riguardo alle vicende giudiziarie che state attraversando, potete farlo.
«Sebbene abbiano tolto a cinque lavoratori il divieto di dimora a Bologna, considerato insensato dal giudice, abbiamo ancora un processo per estorsione in corso. Ci accusano di aver richiesto una somma più alta del dovuto. In realtà, il giudice del lavoro ci ha detto che la somma che spetterebbe alla lavoratrice in questione è di circa 8mila euro. Noi, durante le nostre azioni un anno fa, richiedevamo 7mila euro, quindi anche troppo poco. La Procura di Bologna ci ha tacciato di aver preteso con la violenza un ingiusto profitto, che però è inesistente. Intanto il processo va avanti e c’è stato un piccolo grande successo: la rimozione delle misure cautelari nei confronti dei lavoratori. Speriamo che, nelle prossime udienze, venga meno anche l’assurda accusa di estorsione».
Le immagini: dalla pagina web de Il Padrone di Merda.
Alessia Ruggieri
(LucidaMente, anno XVI, n. 183, marzo 2021)
Bene, buona fortuna a questo collettivo appena nato, da pochi anni se non sbaglio, che si batte al servizio di quella che è una categoria ad oggi più vulnerabile come i lavoratori. Poi con lo sblocco dei licenziamenti che ci sarà in agosto con tutta probabilità questo collettivo avrà un sacco di lavoro da fare!