“Il Resto del Mondo”, edito da Kimerik, costituisce una ricerca filosofica e letteraria personale e talvolta quasi mistica
«Ut pictura poësis» dichiarava Orazio, in tempi non sospetti, nella sua Ars Poetica (o Epistola ai Pisoni) – “come la pittura così la poesia”. In tal modo il poeta latino andava a evidenziare un rapporto tra le due arti, ripreso poi attraverso i secoli, molto vicino alla complementarità. Ad esempio, si può rappresentare materialmente quello che s’immagina leggendo.
Oppure costruire una storia su un disegno già esistente. È questo il caso del luganese Moreno Berva e del suo romanzo Il Resto del Mondo (Prefazione di Giulia Martiradonna, Kimerik, pp. 280, € 25,00): infatti, l’opera in questione trae ispirazione dal lavoro di Pano Parini, artista contemporaneo svizzero e grande amico dell’autore del libro. In particolare, da diciassette tavole raccolte in una serie concettuale – intitolata 17 saturazioni – ricca di colori vividi e tecniche pittoriche all’avanguardia. Il lettore stesso può essere testimone di tale maestria dal momento che ogni capitolo si apre con la rappresentazione dei dettagli delle tavole, impossibili da riprodurre in toto a causa della loro dimensione. Tuttavia, già si può notare come le due opere vadano di pari passo, ispirandosi reciprocamente nei titoli e nelle vicende. Il libro tratta di un’inchiesta, ma, come chiarisce la Martiradonna nella Prefazione, «non si tratta di scoprire chi ha ucciso il nonno per ereditarne la villa stile anni ’50 né di identificare il rapinatore di una gioielleria in centro».
Infatti, il protagonista, Roberto Calamai, affermato giornalista, deve fronteggiare un rischio ancora più pericoloso di un assassino a piede libero; su richiesta del proprio direttore, dovrà spiegare cosa sia il mondo, sostantivo cui s’ispira il nome dell’immaginario periodico, che a propria volta dà il titolo al romanzo di Berva. Inizia così per l’uomo un’indagine investigativa sicuramente non semplice ma accurata, soprattutto nella ricerca dei suoi “occhi” indagatori. Essi saranno amici, colleghi e, soprattutto, bellissime donne, che lo aiuteranno nell’arduo compito, fornendo ognuno la propria personale visione, com’è giusto che sia.
A un occhio superficiale il libro potrebbe sembrare solo una semplice serie di capitoli che nulla hanno a che vedere l’uno con l’altro; ovviamente, non è così. L’autore dimostra di saper gestire sapientemente un intreccio annodato da un interrogativo abbastanza complicato al quale non si può fornire una risposta senza correre il rischio di risultare presuntuosi o, addirittura, in errore. Per ovviare a questo problema Berva concede ai lettori più di una chiave di lettura; da quella iconografica, più esplicita grazie alla pittura diParini, a quella simbolista, presente soprattutto nelle visioni, vere e proprie, che Calamai si ritrova ad avere a casa della misteriosa Slow Fox, fino ad arrivare al misticismo dell’isola di Nausicaa. Tante risposte, quindi, tante voci che si accavallano e si uniscono… Ma ci sarà quella giusta?
L’autore non sembra volerlo dire; si limita a raccogliere e riepilogare ogni nuova riflessione attraverso un originale espediente narrativo, utilizzando la rubrica (e la penna) stessa del suo protagonista, per cui, grazie al suo diretto rivolgersi ai lettori, vi è quasi l’illusione della rottura della cosiddetta quarta parete cinematografica. È proprio in questo modo che Calamai – e tramite lui, Berva stesso – dichiara la sua fallibilità come scrittore non onnisciente ma non ritiene del tutto vano il suo lavoro; infatti egli scrive che, «non avendo in alcun modo potuto spiegare l’uomo e il mondo, spero di almeno suscitato un certo numero di riflessioni utili allo sviluppo della coscienza. Che la saggezza aumenti i dubbi, non è cosa nuova. E che ogni risposta moltiplichi le domande è ora definitivamente avverato».
La bravura dello scrittore è dimostrata anche dall’uso del linguaggio, molto curato nella struttura formale, a tratti quasi aulico, ma per nulla fuori dal tempo perché controbilanciato da una buona dose di ironia e di battute sagaci. Interessante è l’uso dell’onomastica, che in molti casi rispecchia o descrive il carattere dei personaggi. Ad esempio, il direttore del giornale, Stampa, appropriato per chi di mestiere dà il suo imprimatur; le affascinanti Delfina e Nausicaa, compagne di avventura tra i mari la prima e riferimento all’Odissea omerica la seconda; le varie personalità dell’arte culinaria, tra le quali Micaela Cappelletti (detta, ovviamente, Brodino) e Margherita Forni, la stella della preparazione di pane e pizza. Una menzione a parte merita il protagonista, chiamato appunto Calamai.
In effetti, come l’apposito contenitore in cui viene versato l’inchiostro, egli è parte attiva della sua storia ma è altresì attraversato e riempito dalle riflessioni di molti; diventa così strumento di espressione, tramutando quei pensieri in parole concrete. Da tutto ciò scaturisce la lettura assolutamente avvincente di un testo del quale è impossibile poter spiegare o descrivere tutto, avendo trattato come tema il mondo e la vita dentro di esso. Mondo e vita dei quali si può fare esperienza anche semplicemente avendo il libro di Berva tra le mani…
Maria Chiara Paone
(LucidaMente, anno XII, n. 144, dicembre 2017)
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