In “Lettere a Seneca” (Marte Editrice) Lucilio Santoni, attraverso varie forme espressive, affronta – anche polemicamente – i temi del presente
Se Seneca, presumibilmente tra il 62 e il 65 d.C., scrisse 124 Lettere, di argomento filosofico e morale, indirizzate all’amico Lucilio, dopo quasi duemila anni un altro Lucilio risponde al filosofo e scrittore ispano-latino. Il Lucilio in questione è il poeta marchigiano Santoni e l’opera reca appunto il titolo ironico di Lettere a Seneca (Marte Editrice, pp. 148, € 14,00).
«Per tanti anni ho creduto che il bello potesse non dico salvare il mondo, ma per lo meno migliorarlo. […] Ho creduto che una bella terra ispirasse nobili sentimenti o, se non proprio nobili, almeno non troppo meschini». Diremmo che questa riflessione iniziale dell’autore costituisca il quid della pubblicazione. Oggi prevalgono sempre di più la bruttezza, la violenza, l’ingiustizia, lo sfruttamento, la stupidità. E Lucilio Santoni, disincantato e disilluso, ma instancabile anarchico, le denuncia. Paradossi, riflessioni, poesie, citazioni, affrontano molteplici tematiche del presente, con un tono talvolta sconsolato e malinconico, a volte apertamente polemico, ma sempre originale, con uno scavo profondo, quasi ferite benefiche all’interno della realtà che stiamo vivendo, nella quale «per vincere è necessario il massimo dell’individualismo combinato col massimo dell’omologazione».
La verità viene schiaffata in faccia al lettore senza alcuna “prudenza” politically correct: «La donna che sbraita più forte contro gli stupratori è colei che desidererebbe essere presa con forza. L’uomo che usa più spesso la parola “puttana” come insulto è colui che spende tutti i suoi soldi con quel tipo di donna. […] Chi parla troppo spesso di amore e buoni sentimenti è colui che coltiva un odio viscerale». Santoni si riappropria giustamente del linguaggio, della sua potenza espressiva, della sua capacità di scandalizzare, perché in ambito linguistico si sta attuando «una sorta di carnevale semantico. […] Una lenta distruzione quotidiana della lingua comporta una inesorabile corruzione dell’anima di chi la parla».
I testi, di varia tipologia, ciascuno col proprio titoletto, sono divisi in sei parti. La prima, che riprende il titolo generale del libro, è quella più “saggistico-riflessiva”. Nella seconda (La tranquillità dell’animo) troviamo una prosa poetica, frammentaria, tormentata ed evocativa, stile analogo a quello della terza (Luoghi naturali), con ogni pagina dedicata a un “luogo” particolare (ad esempio, della luce, del sogno, dello sguardo, dell’elegia, della solitudine, del capitalismo, dello spasmo). La quarta descrive La vita beata (in terra di Marche). Molto particolare la quinta (La brevità della vita), che accoppia situazioni del calcio a quelle dell’esistenza umana («Giocare in porta, certo, non dà alcun potere. Non disporre mai di niente cui appoggiarsi. Niente dietro cui ripararsi. Avere di fronte l’immensità del campo. E restare in balia degli eventi. Senza poter modificare il corso delle azioni»). Chiude la pubblicazione la miscellanea di Consolazione.
La tensione etica, lo spaziare da una tematica civile all’altra di queste Lettere a Seneca ci hanno ricordato il libro di un altro poeta, Franco Buffoni (da noi stessi recensito sulla presente rivista in A lezione di laicità: “Più luce, padre”). E il mondo odierno, le persone stordite dai propri problemi e istupidite dal potere e dai mass media, avrebbero bisogno di tante, tantissime opere così. Ma, completando la citazione iniziale, «la bellezza è per pochi, purtroppo. […] E quella bellezza non incide minimamente sulle masse, che vi passano accanto a testa bassa, senza neppure esserne sfiorate».
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno VIII, n. 91, luglio 2013)