Il pauperismo di Francesco I non è un semplice richiamo evangelico, ma ha finalità geopolitiche e contiene un sostrato ideologico-teologico dalle pericolose prospettive: da una religione che guarda al mistero del soprannaturale a semplice umanitarismo e moralismo filantropico
Nel numero dello scorso ottobre di LucidaMente, con Ma i vescovi africani sono contro le migrazioni, avevamo visto come molti prelati anche africani non siano a favore di un’emigrazione generalizzata, anzi… Essa, infatti, non fa che condurre i migranti verso la schiavitù e il degrado anche morale, nonché aumentare la povertà degli stessi paesi d’origine.
Ripetiamo un concetto-chiave. L’ideologia bergogliana dell’accoglienza indiscriminata nasce da dati di fatto e ha specifiche, anche se rischiose, finalità geopolitiche di largo respiro. Gli europei, italiani compresi, sono ormai quasi completamente scristianizzati – purtroppo? per fortuna? decidete voi. Mentre papa Benedetto XVI aveva tentato di lottare contro secolarizzazione e desacralizzazione del continente, Francesco I ha preso atto della sconfitta. Ma in Africa i cattolici, anche per il boom demografico, sono in aumento in numeri assoluti (sebbene non in percentuale, data l’espansione islamica). In generale, in Europa i poveri son sempre di più. Quindi, il target attuale – ci sia perdonato il termine – della Chiesa cattolica è costituito dalle masse derelitte che arrivano da ogni parte del mondo nel vecchio continente e dai bisognosi, che, tra l’altro, possono trovare nella Chiesa e nelle associazioni cattoliche di beneficenza un’assistenza più o meno disinteressata. Più poveri cristiani o da cristianizzare ci sono, più rimane per il Vaticano la speranza che l’Europa non sia del tutto perduta.
Come rivolgersi a tale “utenza”, nonché ai laici, a certa sinistra, che vede in Bergoglio il proprio capo spirituale? Non certo con l’altezza dei messaggi filosofico-religiosi, con raffinatezze teologiche e dogmi incomprensibili ai più, o con la fermezza morale e spirituale. Servono risposte semplici, includenti/inclusive, paradossalmente “populiste”, sebbene proprio Francesco I veda esplicitamente come fumo negli occhi populismo e sovranismo e si esprima al riguardo con modalità davvero estremiste e inconsuete. Un’ideologia elementare, così come il linguaggio trasandato, da parroco di periferia, del pontefice argentino: un buonismo melenso e insensato, un irenismo fanciullesco, sentimentale, del tutto lontano dalle problematiche reali, un perdonismo verso tutto e tutti; e gli ultimi come portatori di valori assoluti, il pauperismo come scelta di vita.
Ora, a proposito di povertà, come avevamo anticipato alla fine di Il Vaticano ha dato ormai per persa l’Europa?, vorremmo provare a spiegare, al di là dell’opportunismo geopolitico del Vaticano, le radici (e i rischi) del pauperismo di Bergoglio. In questo compito un notevole ausilio ci viene fornito dal capitolo 5 (Pauperismo e comunismo: la teologia della sovversione e della rinuncia) dell’illuminante libro I padroni del caos (Liberilibri, Macerata, 2017, pp. 456, € 20,00) di Renato Cristin. Un punto di svolta della Chiesa cattolica latinoamericana (e non solo) può essere individuato nella Conferenza episcopale di Medellin del 1968. È da quel momento che si suole datare simbolicamente la nascita della cosiddetta Teologia della liberazione. In sintesi – e perciò senz’altro in modo grossolano – possiamo dire che da allora l’aspetto teologico e spirituale del cattolicesimo scivola verso istanze sociali. Siano ben chiari almeno due concetti: 1) l’ingiustizia sociale, in tutto il mondo e specie in quello meno sviluppato, urla vendetta; 2) la Chiesa è sempre intervenuta sui problemi del lavoro, dei salari, dell’iniquità con la propria dottrina sociale. Su questi drammatici e dolorosi temi due sono le encicliche più famose; quella emessa da Leone XIII (Rerum novarum, 1891) e Centesimus annus di Giovanni Paolo II, appunto a distanza di un secolo (1991).
Documenti che sono molto chiari nel denunciare sfruttamento e necessità di tutela dei più deboli dal punto di vista sociale, distanziando nettamente la dottrina sociale della Chiesa sia dal capitalismo selvaggio così come dal socialismo di stato. Allora, cosa c’è di nuovo e sconvolgente nella Teologia della liberazione e nel pensiero e nella prassi di papa Bergoglio? Nella sua prima esortazione apostolica (Evangelii gaudium, 2013), Francesco I ha scritto: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri. […] L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano […] è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo […]. È una realtà antecedente alla proprietà privata».
Intendiamoci: fin dalle origini il cristianesimo è di per sé un appello alla sovversione, ma nel senso di una trasformazione ontologica della coscienza e della prassi. Però, come si può notare nella citazione su riportata, qui abbiamo un salto di qualità. La critica assoluta al concetto di proprietà è nuova. La proprietà è vista positivamente da teologi (ad esempio, Tommaso d’Aquino) – ma anche da certi stessi pensatori socialisti – in quanto le persone curano più ciò che gli appartiene dei beni collettivi, e questo produce maggiore benessere e progresso. Più proprietari e non di meno, insomma. La proprietà privata può esser messa in discussione solo se produce danni alla collettività (oggi, anche attraverso l’inquinamento). Meglio qualche ricco e molti piccoli proprietari che una totalità di poveri. La povertà, come la malattia, è un’esperienza che ciascuno di noi può provare (certamente la seconda). Da esse possiamo anche uscire migliori, ma, in assoluto, sono condizioni da evitare e, nel caso ci imbattessimo in esse, da superare. Insomma, la povertà non è di per sé un valore, specie se si trasforma in miseria.
Uno stile di vita semplice può essere una scelta, ma non può essere un modello o una costrizione. Anche perché nulla dimostra che essere poveri renda più buoni o ontologicamente migliori. La povertà è quasi sempre dolore, umiliazione, porta aperta verso la criminalità. Quasi tutti i poveri aspirano a diventare ricchi e, una volta raggiunta un alto livello sociale, in genere non si comportano meglio dei benestanti di data antecedente. In conclusione, nulla rende il povero antropologicamente diverso e tanto meno ontologicamente superiore dal facoltoso. Se la teologia di origine latinomericana ritiene l’esperienza della povertà centrale dal punto di vista evangelico, è evidente che, affinché essa abbia successo nel nostro continente, occorre terzomondizzare l’Europa e i suoi popoli, anche attraverso l’ingresso indiscriminato di milioni e milioni di reietti.
Piuttosto che fare di tutto per superare la povertà (a nostro avviso anche con delle ragionevoli politiche demografiche), ritenerla una sorta di stadio superiore della vita religiosa, spirituale e morale! Si legge ne I padroni del caos: «La liberazione non è dunque dalla povertà, ma della povertà: togliere alla povertà (e a tutte le sofferenze ad essa correlate) le catene che la relegano nell’anticamera della società ed elevarla a sistema sociale stesso». Attraverso le ideologie intolleranti di accoglientismo, multietnicità, multiculturalismo, immigrazionismo, (auto)colpevolizzazione dell’Occidente, considerato causa di ogni male, si passa alla miseria generalizzata, alla demolizione dell’identità culturale occidentale, nonché della sua civiltà borghese coi suoi valori di laboriosità, risparmio, intraprendenza, rispetto della parola data, attenzione a famiglia e bimbi, educazione e istruzione, decoro, ordine, pulizia, igiene. Risultato finale: il caos. Scrive Cristin: «è evidente che i poveri devono esser assolutamente aiutati con gli strumenti dello Stato e con quelli della carità individuale a uscire per quanto possibile da una condizione che mortifica la società per intero; è evidente che […] non è accettabile alcuna difesa del principio dei ricchi in quanto tale, perché i migliori, gli unici a dover essere valorizzati, si trovano sia fra i ricchi sia fra i poveri».
Tuttavia, la cosiddetta Teologia della liberazione e il pauperismo di Francesco I sono disastrosi non solo per l’Europa, che ha faticosamente raggiunto nei secoli democrazia, libertà, welfare state, istruzione generalizzata, sanità pubblica, ecc., ma anche per gli stessi poveri e gli immigrati senza alcun possibilità di assimilazione, interazione, inclusione: «Quella teologia non li emancipa dalla libertà (casomai li può emancipare nella povertà […]) perché le sue soluzioni concrete economico-politiche […] non producono alcun beneficio sostanziale ai poveri stessi». In conclusione, ci si può avviare a due forme di sostituzione: 1) quella della stessa Chiesa cattolica, della sua religione, che passerebbe dall’avere come scopo la ricerca di Dio e della Verità metafisica a essere un filantropismo umanitario; 2) quella della civiltà e della stessa etnia europea, le cui identità sono del tutto estranee al messaggio sovversivo del papa venuto dall’Argentina.
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Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XIV, n. 168, dicembre 2019)