Nella primavera nel 1578, il re s’imbarcò a Belém con una flotta di 800 navi e circa 20.000 uomini. Il 4 agosto si accampò e schierò le proprie truppe nei pressi di Ksar-el-Kebir (Alcazarquivir) incurante della grande supremazia di uomini su cui poteva contare il suo rivale Abd el-Malik, che aveva usurpato il trono del sultano Mulay Ahmed (alleato di Sebastiano) e aveva radunato all’incirca 40.000 cavalieri. La battaglia durò quasi cinque ore e, nonostante il comportamento eroico dei soldati portoghesi, si concluse con la disfatta dell’esercito di re Sebastiano. Soltanto alcune centinaia di cavalieri portoghesi riuscirono a salvarsi.Il “re desiderato” – Il corpo di Sebastiano I non fu mai trovato (o meglio: un corpo fu presentato, il giorno dopo la battaglia, come quello del re), e tale incertezza, relativamente alla sua morte, diede vita alla leggenda del ritorno di don Sebastiano. La scomparsa del giovane re precipitò il suo paese in una profonda crisi dinastica che si concluderà con l’annessione del Portogallo alla Spagna. Alla morte di Sebastiano successe il prozio Enrico I, anziano cardinale e dunque anch’egli senza figli, alla cui morte, nel 1580, il trono passò a Filippo II di Spagna, col nome di Filippo I di Portogallo, e il paese perse la propria indipendenza. Fu in seguito all’odiata dominazione spagnola che la figura di don Sebastiano assurse a simbolo della perduta indipendenza nazionale o pegno d’un riscatto politico: il “re desiderato”. Attorno alla figura dello sfortunato re portoghese nacquero credenze e superstizioni, nonché un vero e proprio movimento messianico, «il sebastianismo», che si diffuse dapprima presso il popolino e, in seconda istanza, nei ceti alti. In questo ambiente nasce il mito di re Sebastiano, scampato alla battaglia e fuggito in una località ignota e lontana. Questa leggenda provocò numerosi casi di impostura per via di vari personaggi che, in più tempi e luoghi, si proclamarono don Sebastiano, re di Portogallo.
Don Sebastiano in Calabria: il “re inventato” – Uno di questi impostori (o ritenuti tali) fu il calabrese Marco Tullio Catizone, nato a Magisano (anticamente denominata “Vucisano”), da Ippolito e Petronia Cortes, che trascorse a Messina un periodo della sua vita insieme alla moglie, Paola Gallardeta, e alla figlia. Non si conoscono né la professione né la condizione sociale di Catizone, ma pare avesse un certo livello di istruzione e conducesse una vita da benestante, tanto che, nel 1598, intraprese un lungo viaggio che da Messina lo condusse a Roma e a Venezia. In questa città, un reduce portoghese della battaglia d’Africa lo convinse, grazie ad alcuni testimoni, della sua somiglianza con il defunto sovrano. A questo punto, Catizone si calò talmente nell’interpretazione del re che alcuni portoghesi lo finanziarono, facendolo perseverare nella convinta impostura. Si narra che arrivò addirittura ad allungarsi un braccio e a farsi gonfiare una caviglia (?) pur di assomigliare al re defunto. E nonostante che, nel 1582, le presunte spoglie di re Sebastiano fossero state traslate nel monastero dei Jerónimos a Lisbona (per dimostrare al popolo portoghese che il re era realmente morto), pure si dette il destro a questo personaggio. Intanto Catizone era giunto a Padova e da questa città la sua fama di millantatore arrivò alle autorità venete, che gli intimarono di andarsene.
L’impostura prende corpo: un caso diplomatico – L’eco delle gesta del presunto re arrivò in Spagna. L’ambasciatore spagnolo, don Enrico Mendoza, si presentò alle autorità di Venezia per sollecitare l’arresto dell’impostore adducendo il fatto che colui che voleva farsi passare per il re non conosceva una parola di portoghese. Marco Tullio non fu arrestato subito perché, pare, era nelle benevolenze di nobili potenti e prelati mestatori. Tuttavia, il 26 novembre 1599, le autorità veneziane decisero di passare alle vie di fatto facendo imprigionare Catizone. In Portogallo, però, alla notizia dell’arresto del redivivo “re desiderato”, scoppiarono tumulti che spinsero le autorità spagnole a inviare due messi al fine di accertare l’identità del detenuto. Si mosse persino Enrico IV di Francia, che incaricò il suo ambasciatore a Venezia di “sensibilizzare” il doge in persona affinché liberasse Catizone. L’impostura si stava trasformando in una faccenda delicata, fino a minacciare l’equilibrio europeo, diventando un affare di politica internazionale. Alcuni ecclesiastici portoghesi si recarono addirittura a Roma per implorare l’intervento del pontefice. Nel dicembre 1599 giunsero a Venezia don Manuel e don Cristovao, figli di don Antonio priore di Crato (che aveva inutilmente conteso a Filippo II il trono di Portogallo). Ma le autorità veneziane non permisero agli inviati portoghesi di accertare l’identità del prigioniero, avallando così il sospetto che si trattasse veramente di re Sebastiano.
La condanna a morte – Un anno dopo, il 15 dicembre 1600, Catizone veniva rimesso in libertà con un decreto di espulsione da tutto il territorio della Repubblica di Venezia, sotto pena di incorrere in dieci anni di galera. Insieme a un frate portoghese, egli abbandonò Venezia per dirigersi verso Livorno e imbarcarsi per la Francia. Ma durante il tragitto fece sosta a Firenze e, nonostante fosse travestito da pellegrino, commise la leggerezza di farsi riconoscere come don Sebastiano. Fu immediatamente arrestato e di ciò fu data notizia sia al re di Spagna Filippo III, sia al vicerè di Napoli, conte di Lemos. Entrambi ne chiesero la consegna, mentre, nel frattempo, Enrico IV presentava una ferma protesta presso la corte granducale. Ma l’ago della bilancia di Ferdinando de’ Medici pendeva troppo verso la politica spagnola per dare ascolto al re di Francia. Il granduca, infatti, fece tradurre Catizone a Orbetello, dove una nave spagnola lo rilevò per condurlo a Napoli. Il sedicente re portoghese giunse a Napoli il 1 maggio 1602. Il vicerè fece fare un ritratto di Catizone dal pittore Fabrizio Santafede, inviandolo, insieme a una minuziosa relazione, a Filippo III. L’impostore fu condannato al carcere a vita il 20 maggio 1602. Il re, tuttavia, volle che fosse tradotto in Spagna, dove arrivò all’inizio del 1603. Benché detenuto, Catizone ebbe modo di riallacciare i suoi antichi rapporti con i portoghesi ostili alla dominazione spagnola. Rapporti che diedero vita a una congiura, ordita da nobili e prelati portoghesi, che tentava di far leva sulla prigionia del falso re per provocare una sollevazione popolare. Scoperta la congiura, Catizone fu condannato a morte per impiccagione. La sentenza fu eseguita il 27 settembre 1603, nella Plaza de la Ribera a Sanlucar de Barrameda, prevedendo, tra l’altro, il taglio della mano destra (in quanto spergiuro), l’impiccagione e la disgregazione del corpo. Altre tre persone (tra i quali il calabrese Annibale Balsamo), forse suoi complici, seguirono la stessa sorte.
In Calabria: la traccia ritrovata da Duret de Travel – La leggenda del falso re di Portogallo, nonostante che il Catizone avesse vissuto buona parte della sua vita fuori dalla Calabria, rimase legata al paese natio: Magisano. Tale e quale, con qualche variante dovuta al tempo, alla narrazione orale e all’amor patrio, la ritrova Duret de Travel (autore, nel 1820, dello scritto Séjour d’un officier français en Calabre ), ufficiale dell’esercito francese, e ne scrive al padre, da Catanzaro, il 20 settembre 1808, riassumendola in questo modo: «Don Sebastiano, re del Portogallo, la cui madre era figlia di Carlo V, cedendo all’impulso irrefrenabile del suo carattere intraprendente, passò in Africa, all’età di vent’anni, con una numerosa armata per sostenere Muley-Mahamet, re di Fez e del Marocco, che era stato deposto dallo zio. I portoghesi furono sconfitti in una battaglia e Filippo II, re di Spagna, che dopo la morte di don Sebastiano doveva ereditare la corona del Portogallo, si affrettò a spargere la voce che Sebastiano era morto in quella battaglia. Il suo corpo, che si pretendeva essere stato trovato sul campo di battaglia, fu riscattato dagli infedeli e trasportato sul campo di battaglia, fu tumulato a Belèm, luogo di sepoltura dei suoi antenati. Sembra, tuttavia, che l’infelice don Sebastiano, sfuggito ai nemici, fosse riuscito a rifugiarsi in Terra Santa, da dove poi sbarcò in Calabria travestito da pellegrino. Non osando farsi riconoscere in un paese che apparteneva alla Spagna, rimase nascosto per qualche tempo a Magisano sotto il falso nome di Marco Tullio Cottisone [Catizone, ndr]. Stanco di questa vita oscura, si imbarcò per Venezia in attesa di un’occasione per tornare in Portogallo. Il suo segreto era però trapelato. Arrestato e interrogato, provò evidentemente di essere don Sebastiano re del Portogallo. Tuttavia fu imprigionato come un impostore. I portoghesi che si trovavano a Venezia lo fecero evadere travestito da monaco. Ma fu nuovamente arrestato a Firenze. Il granduca, fedele alla Spagna, lo mandò in catene a Napoli. Il conte di Lemos, vicerè del reame, avendolo fatto comparire alla sua presenza, fu così colpito dall’aria e dalla dignità del prigioniero, dalla facilità con la quale si esprimeva in lingua portoghese, della conoscenza che aveva degli affari politici della corte di Lisbona, che ritenne necessario accertarsi meglio dell’identità di quella persona. Lo fece perciò incatenare e rinchiudere in una cella fino all’arrivo del nuovo vicerè. Questi lo condannò alle galere come un impostore posseduto dal demonio. Il duca di Medina-Sidonia, ambasciatore a Lisbona sotto il regno di Sebastiano, avendo voluto vedere questo personaggio straordinario, rimase talmente confuso e intenerito dal suo aspetto che si ritirò piangendo. Infine la corte di Madrid, giudicando che la soluzione migliore fosse la soppressione del prigioniero, lo fece impiccare nell’Isola delle Femmine presso Palermo».
Il dramma teatrale: Don Sebastiano – Come si deduce da questa testimonianza, la vicenda storica legata a Catizone si è andata, nei secoli, incrostando di leggenda. In Calabria, la triste avventura di don Sebastiano si sviluppa ancora nel XIX secolo sotto forma di dramma storico scritto da Leonardo Antonio Forleo, il Don Sebastiano (1846), che tratta d’una contorta storia del re di Portogallo, il quale, dopo la sconfitta, si trova a Napoli, travestito sotto mentite spoglie (si fa chiamare Caballero), e qui diviene amante di Gennarina, di cui però s’innamora anche Mello (il suo più fido generale), pur egli in incognito, il quale, per riuscire a possedere Gennarina, denuncia il rivale Caballero (che non sa essere don Sebastiano) al vicerè spagnolo che lo condanna a morte. Quando è ormai condannato, don Sebastiano è riconosciuto da Mello, che si dispera perché non può più salvarlo e riesce soltanto a procurargli il veleno tramite Gennarina: e questa, innamorata di don Sebastiano e ormai disperata, s’avvelena a sua volta.
Il melodramma: Dom Sébastien de Portugal – «Io (more solito) scrivo ora l’opera per Parigi in 5 atti D. Sebastiano di Portogallo – Ella conoscerà bene l’infausta spedizione di questo Re contro Algeri, la perdita di tutto l’esercito, la sua morte tuttora misteriosa etc. Su questo s’aggira il soggetto. Avvi Camoens – l’Inquisitore che trattava segretamente per ridur lo Portogallo schiavo alla Spagna… un po’ di tutto insomma». Così Gaetano Donizetti scriveva al suo vecchio maestro, Giovanni Simone Mayr, il 15 luglio 1843, nel bel mezzo della composizione dell’ opera Dom Sébastien de Portugal, andata in scena all’Opéra di Parigi il 13 novembre 1843. Della triste vicenda di don Sebastiano, della morte e del suo misterioso ritorno in patria, si pasce l’opera di Donizetti, e il sinistro evolversi della vicenda si preannuncia nell’improvviso temporale che scoppia durante il primo atto, mentre don Sebastiano si appresta a partire per l’Africa. Ma il melodramma donizettiano, su poesia di Eugène Scribe, va oltre la tematica storica dell’impostura (già esplorata dal teatro spagnolo barocco e romantico), per prediligere un eroismo di tipo preverdiano. Ancora più sinistro risuona, nel clamore generale della fine dell’Atto I, il canto di don Juan De Silva, il Grande Inquisitore (nonché consigliere personale del re, ma traditore dello stesso nella fattispecie), «et monarque et soldats, / des sables africains vous ne sortirez pas!» (“e monarca e soldati / dalle sabbia africane non uscirete!”), nel quale l’ombra minacciosa di Filippo II di Spagna percorre, quale deuteragonista occulto, l’opera. Già nella prima scena dell’Atto I, don Juan de Silva è chiarissimo nel suo proposito di vendere il Portogallo alla Spagna manovrando il debole don Antonio, rimasto quale reggente dopo la partenza di don Sébastien per l’Africa. Don Antonio: «[…] Et pendant son absence, / je prétends avec vous partager la puissance» (“Durante la sua assenza / aspiro a dividere con voi il potere”). Don Juan De Silva: «Que ta débile main ne gardera qu’un jour! / L’adroit Philippe Deux, que la gloire accompagne, / couve depuis longtemps, de son oeil de vautour / le riche Portugal, trop voisin de l’Espagne » (I, 1) (“Che la tua debole mano non conserverà che un sol giorno! / L’abile Filippo secondo, che la gloria l’accompagni, / cova da molto tempo, col suo occhio d’avvoltoio / il ricco Portogallo, troppo vicino alla Spagna”).
Filippo II sale al trono – Dopo la battaglia d’Africa, è don Antonio che organizza i falsi funerali del re (Atto III). Nella piazza di Lisbona sono presenti, l’uno all’insaputa dell’altro, Camoëns, poeta e soldato del re portoghese, e don Sébastien: «C’est un soldat qui revient de la guerre» (“Sono un soldato che torna dalla guerra”) canta Camoëns, mentre mendica qualche soldo, dopo essere ritornato in patria. «Ainsi que toi, je reviens de la guerre» (“Come te, anch’io torno dalla guerra”) risponde, in incognito, don Sébastien in persona, anch’egli come Camoëns reduce a Lisbona dalla battaglia d’Africa che lo vide protagonista di un’ingloriosa disfatta, ancora prima che la famosa Marcia funebre (Atto III, scena VII) prenda l’avvio, con la forte, macabra traccia della presenza in carne e ossa del (presunto) re defunto. Nell’opera, la battaglia accade durante il secondo atto, con don Sébastien che riesce a salvarsi grazie alle cure di Zayda. La storia, come abbiamo già detto, è andata ben diversamente, in quanto re Sebastiano morì in Marocco, nella battaglia di Alcazarquivir, ultimo della dinastia di Aviz. La disastrosa campagna militare in Africa diede a Filippo II il pretesto per rivendicare il trono attraverso sua madre, che era una principessa portoghese. Quando Lisbona rifiutò il suo reclamo, egli organizzò l’assorbimento del Portogallo, invadendolo, annettendolo e salendone al trono, che sarebbe stato occupato dalla Spagna per sessant’anni. Filippo pronunciò una sentenza famosa, dopo la sua occupazione del trono portoghese: «Ho ereditato, ho comprato, ho conquistato». In questo modo Filippo aggiunse ai suoi possedimenti un vasto impero coloniale in Africa, Brasile e nelle Indie Orientali, portando un nuovo flusso d’oro a Madrid.
Note
Le traduzioni dei brani del Dom Sébastien sono letterali e non si riferiscono, in alcun modo, alla traduzione del libretto, in lingua italiana, approntata da Giovanni Ruffini, nel 1843. La citazione di Duret de Travel è tratta da: Duret de Travel, Lettere dalla Calabria (Introduzione e traduzione di Carlo Carlino, Rubbettino, pp. 100-101).
L’immagine: Ritratto di re Sebastiano di Cristóvão de Moraes (XVI secolo).
Francesco Cento
(LucidaMente, anno III, n. 31, luglio 2008)