La creatrice del “made in Italy” e del concetto di “vintage” – prima ancora che questi termini venissero di fatto coniati – è venuta a mancare all’età di 81 anni lasciando un’immensa eredità di colore, fantasia e avanguardia
Nata prima delle varie Anna Wintour e fashion manager/giornaliste che oggi ispirano film e persino documentari, Anna Piaggi – deceduta lo scorso 7 agosto – ha rappresentato la continuazione della vocazione internazionale del genio italiano. Un estro che nasce nel Rinascimento, matura nell’Età moderna e cresce, fin quasi a dismisura, nel Novecento con l’eccellenza artigianale e imprenditoriale dei manufatti del Belpaese di cui Gabriele D’Annunzio, “accatastatore” ispirato, sembra essere, se non l’inventore, l’esaltatore primo.
La Piaggi, con il fine gusto, innato nella buona e colta aristocrazia e borghesia italiane (asfissiate dall’arricchimento di una enclave rozza e spesso aculturale che si sviluppa con la “Milano da bere”), e con l’arditezza dell’intellettuale diviso fra le culture, si delinea per l’esperienza nel confronto, nell’accostamento e nell’anticipazione; colleziona, accumula, mai sottrae, sensazioni, impressioni, colori, forme, disegni e progetti che la subcultura dei “mondi” non ufficiali sembra produrre copiosamente. Pesca per le strade del mondo scampoli di stoffa, cappelli, tratti e profili, non stupisce per stupire ma vive di stupore per il diverso, che afferra, modella e scolpisce in proposte, pieghe e volant con risultati inediti e a tratti scioccanti. La sua è la maschera dell’autenticità, valore che, per essere rappresentato nella società delle maschere, ha bisogno dell’invenzione di una donna-arte.
Con ironia altezzosa, simpatia e buonumore, Anna Piaggi porta la moda dall’ambito “superfluo” a quello dell’arte (e con lei trascina Lagerfeld, Westwood, Blahnik e molti altri). Non cede mai terreno ad alcuno in Europa, dando ragione a chi sostiene che la tradizione del bello in Italia possa essere l’unica possibilità per il futuro del nostro paese. È morta, dunque, una ragione di orgoglio nazionale – ovviamente trascurato dalla politica. E, in una nazione che taglia gli interventi alla cultura e ai beni culturali, la Piaggi rimane un simbolo della ineluttabile, quasi immanente, eleganza italiana e, al contempo, mai “nazionale”, anzi alfabeto del mondo (New York in primis). Al di là della moda, della sperimentazione e dell’economia – e la moda rimane per l’Italia uno dei pochi volani –, il messaggio della Piaggi resta quello del primato dell’originalità (che è poi quello adamantino della coscienza), segno di viva cultura e senso critico della realtà. La negazione della morte.
Un ricordo della Piaggi redatto da Mariuccia Casadio è su Vogue.
L’immagine: Anna Piaggi (Creative Commons: Captain Catan from Frankfurt am Main, Germany).
Matteo Tuveri
(LucidaMente, anno VII, n. 80, agosto 2012)
non stupisce per stupire ma vive di stupore
Oscar, grazie per avermi letto. So che stimi molto la Sig.ra Piaggi (Anche da queste parti c’è una certa stima per te: Freakers di Olita e Benedetti, giusto?).
Un caro saluto e buone vacanze estive (se le fai).