A celebrare il funerale del machismo è l’anticonformista Achille Lauro, l’artista da alcuni definito un pagliaccio, ma che, invece, dovremmo ringraziare. Ecco perché
Sembrerà assurdo, ma una delle prime condanne al maschilismo giunge dal mondo del rap, il tradizionale precursore di una serie di canoni comportamentali e stilistici esageratamente “testosteronici”. Ora però non è più tempo di atteggiarsi e mostrare i muscoli: quel modello anacronistico dell’essere uomo sta lasciando spazio a molte altre sfaccettature e modalità di espressione di se stessi. Catene, tute e canotte cedono il passo a cappotti rosa, pochette e rossetti.
È quanto si è visto a inizio febbraio sul palco di Sanremo, dove il controverso cantante Achille Lauro ha interpretato, per le quattro serate del festival, altrettanti personaggi particolarmente poliedrici e anticonformisti. La prima performance lo ha visto nei panni di san Francesco durante la spoliazione, scatenando l’ira e lo sdegno degli ultracattolici. La seconda sera è stato il turno di Ziggy Stardust, estroso alter ego di David Bowie. A seguire la marchesa Luisa Casati Amman, una musa carismatica del Novecento, celebre collezionista e mecenate d’arte. Per il gran finale, Lauro ha scelto la regina Elisabetta I Tudor, una sovrana indipendente e forte del XVI secolo, sotto la quale l’Inghilterra fiorì culturalmente. Le quattro personalità hanno in comune il discostarsi dagli schemi, la ribellione alle imposizioni nel definire la propria esistenza. L’artista romano ha voluto così omaggiare individui fuori da ogni etichetta e allo stesso tempo stravolgere l’immaginario del cantante fallocrate, che esalta la violenza e le proprie capacità di seduzione.
Sulla stessa lunghezza d’onda il rapper Ghali, che alla sfilata del marchio Gucci ha indossato un cappotto rosa e stivali con il tacco, ricevendo per questo insulti di carattere omofobo (Ghali, il rosa e il problema dei fan del rap, NSS Mag). Insulti che nascono da una percezione distorta della figura maschile, considerata dominante nella società. «Sii uomo, non piangere», «Non fare la femminuccia»: quale bambino non si è sentito ripetere queste frasi? Esse, insieme a una serie di altre norme comportamentali, vanno a costruire uno standard di uomo che non può mostrarsi fragile, interessato all’abbigliamento o a certi giochi, pena il sembrare effeminato. È questo che si intende con mascolinità tossica: l’idea che un maschio, per esserlo davvero, non possa discostarsi da una certa immagine.
Il femminismo (quello vero) si batte da sempre contro simili, ingiusti diktat e anche il mondo della moda sta iniziando a comprenderne la gravità. Si definisce, infatti, gender fluid un abbigliamento che non vede nelle differenze di genere un ostacolo all’espressione del proprio stile. Ciò non significa che ci si debba obbligatoriamente scambiare gli abiti con l’altro sesso, ma che semplicemente si può scegliere quello che più ci piace o ci fa sentire a nostro agio, senza pensare a quale categoria appartenga. Questo ha un impatto molto importante, innanzitutto perché infligge un colpo basso allo stereotipo di uomo rude e noncurante dell’aspetto fisico, in favore di altre rappresentazioni. Non si tratta di imporre un canone estetico, ma di allargare lo spettro di possibilità, abituare la società al fatto che non esista un solo tipo di mascolinità e che tutte siano ugualmente valide e degne di rispetto.
Per l’uomo è svilente essere sempre additato come il bruto, il predatore e sentirsi in difetto a mostrare le proprie emozioni e debolezze (qui lo spot di Gillette a riguardo). Un altro cambiamento riguarda infine la percezione della femminilità: se l’uomo non è necessariamente disegnato come forte e virile, specularmente la donna non è identificata come il sesso debole, né le è attribuito un determinato vestiario. Molti hanno definito quella di Lauro una pagliacciata per attirare l’attenzione. Indipendentemente dallo scopo, ci è stato fornito uno spunto di riflessione e su un palco importante come quello di Sanremo sono apparse nuove realtà che, seppur minoritarie, esistono e sono spesso ignorate.
Alessia Ruggieri
(LucidaMente, anno XV, n. 171, marzo 2020)