Internet e i social media sono strumenti di marketing sempre più potenti: quanto ne siamo coscienti e cosa (non) facciamo per limitarne le conseguenze negative
Quante persone sono veramente consapevoli di come funzionino Facebook, i social media e, in generale, internet? Il caso Cambridge Analytica e il presunto furto di dati da Facebook, di cui ultimamente si è tanto discusso, dovrebbero indurre a una riflessione circa il nostro utilizzo del web, oltre che scatenare l’indignazione mondiale per qualcosa di cui siamo responsabili anche noi utilizzatori.
C’è un dato di fatto importantissimo da cui partire: tutti, nessuno escluso, cediamo ogni giorno informazioni riguardanti le nostre attività su internet e lo facciamo perché, più o meno volontariamente, ignoriamo le regole d’uso di questo strumento. Secondo le statistiche, nel 2017 quattro miliardi di persone, circa la metà della popolazione mondiale, hanno utilizzato il web. Quanti di loro hanno letto i termini e le condizioni di utilizzo nel momento in cui si sono iscritti a un social media, hanno scaricato una applicazione o si sono registrati su un qualunque sito? Se abbiamo a disposizione degli strumenti che aprono infinite possibilità positive è anche nostro onere di utenti interessarci e informarci su come questi funzionino e quali siano le logiche che li regolano.
Se non lo facciamo, non possiamo poi lamentarci se tali regole si rivelano essere non etiche o lesive della nostra privacy o dei nostri interessi (vedi Morire all’epoca dei social network). Tutti i nostri comportamenti online (le ricerche che facciamo, le pagine a cui mettiamo mi piace, i siti che visitiamo) sono tracciati – avete mai sentito parlare dei cookies? – e forniscono una quantità enorme di dati che sono utilizzati anche per sviluppare messaggi pubblicitari targettizzati e altamente personalizzati. È questo il motivo per cui ogni volta che cerchiamo online un prodotto o un servizio, immediatamente dopo, vediamo comparire annunci pubblicitari correlati.
Ed è questa la ragione per cui aziende, società e candidati politici sono interessati alle nostre attività sul web: per offrirci prodotti, servizi e persone in linea con le nostre preferenze e che, pertanto, hanno più possibilità di essere acquistati o votati. Se internet e i social media sono nati con intenti nobili (condividere informazioni, connettere le persone, avere uno spazio di informazione libera), negli anni abbiamo assistito a un progressivo cambiamento perché è emersa l’altra loro grande potenzialità: quella di essere efficaci strumenti di marketing personalizzato, grazie, appunto, alla enorme quantità di informazioni che vengono raccolte ogni giorno sulle nostre abitudini, propensioni, interessi. E gli utenti? Internet ei social forse ci hanno colto un po’ alla sprovvista; ci sono piombati in mano – letteralmente, visto che siamo sempre tutti incollati ai nostri smartphone – senza un manuale di utilizzo.
Ma quanti si sono domandati come funzionino davvero? Probabilmente in pochissimi. Invece, sarebbero necessari una educazione all’uso, specialmente per i più giovani, e un po’ più di interesse e consapevolezza, da parte dell’utente medio, non solo delle opportunità che tali strumenti offrono, ma anche dei rischi che possono derivare da un utilizzo errato o ingenuo. Già nel 2013 il documentario Terms and conditions may apply (Cullen Hoback, Usa, 2013) indagava le possibili minacce per i cittadini in una società sempre più connessa, digitalizzata e, perciò, controllata.
Il rischio in questi anni è aumentato, perché le tecniche di raccolta dati e di profilazione sono sempre più sofisticate e il caso Cambridge Analytica ne è la dimostrazione. Forse è giunto il momento di iniziare ad agire di conseguenza e di cominciare a usare tali strumenti cercando di capire le logiche che li regolano. Forse siamo ancora in tempo per evitare che il web, da spazio democratico e libero, si trasformi sempre di più in un Grande Fratello autorizzato (nel senso orwelliano del termine) o in un Carosello non divertente, nel quale le informazioni sono sostitute da contenuti personalizzati – con il rischio di bolla informativa – e da annunci pubblicitari fastidiosi e ripetitivi.
Elena Giuntoli
(LucidaMente, anno XIII, n. 148, aprile 2018)