“Lustrola e i lustrolesi”, voluminosa opera postuma di Mauro Lenzi, fa rivivere, attraverso la storia di una piccola comunità, un mondo appenninico pressoché scomparso
Se percorrete la statale 64 sino a Porretta Terme e, poi, verso Ponte della Venturina, a un certo punto potete deviare a destra e salire sino alla frazione che precede il Comune di Granaglione. Siete arrivati a un territorio un tempo abitato da trecento persone; oggi, d’inverno, da non più di qualche decina. È Lustrola, che, forse, deve l’origine del proprio toponimo «a un leggendario serpente chiamato Lustro, che viveva, pare, nei dintorni pietrosi e selvaggi dell’abitato». Chi è che fornisce tale annotazione?
Il maestro Mauro Lenzi (1914-1997) aveva pazientemente, per anni e anni, con la propria Olivetti M40, redatto in due tomi e, grazie alla carta carbone, in sei copie (quanti erano i figli), tutti i propri appunti, le proprie annotazioni, i propri ricordi, sul “piccolo mondo antico” di Lustrola. Storia, edifici, fatti di cronaca, geografia, usi e costumi, lavoro, personaggi, racconti, spiritualità, aneddoti, lessico specifico, canti di una piccola comunità dell’Appennino si accostano e si completano nel corso dei decenni come tessere di un prezioso mosaico che riprende vita. Oggi, tale lavoro è stato raccolto e pubblicato come quinta uscita della collana La memoria di Nuéter, promossa dal Gruppo di studi Alta Valle del Reno, con il titolo Lusrola e i lustrolesi. Voci e memorie dell’Appennino tosco-emiliano (pp. XVI-444): un volume di grande formato e arricchito da foto e disegni. A curarne l’edizione è stata la stessa figlia dell’autore, Anna Luce Lenzi.
Si tratta di un’opera esemplificativa della oral history, in grado di far rivivere mestieri scomparsi, come il segantino, lo scalpellino, il carbonaio; il lavoro e la fatica; il rapporto uomo-donna; i cibi tratti dalle castagne, come i necci; le modalità di conservazione dei funghi porcini (i ciopadelli); la gastronomia; l’igiene e la salute; gli animali; la religiosità popolare; il dialetto; i giochi; le superstizioni e i racconti popolari. In conclusione, un “museo di parole”, che dovrebbe essere tramandato ai giovani d’oggi affinché, sottraendo ombra al tempo che avanza, non perdano del tutto le proprie incantevoli, magiche e forti radici.
(r.t.)
(LucidaMente, anno VII, n. 83, novembre 2012)