Ancora un libro sulla scuola? Un altro che va a infoltire i tanti, forse troppi, che sono stati sfornati negli ultimi anni? Se così fosse, non sarebbe un indizio negativo. Al contrario, potrebbe essere la conferma che una parte dei docenti (riteniamo ragguardevole) desideri ribellarsi alla bassa considerazione di cui godono, oggi, nel nostro Paese. Ad essa non sono estranei gli stessi insegnanti: almeno quelli che vivono la propria professione come un piatto lavoro impiegatizio; quelli che l’hanno scelto come un ripiego, che consenta loro di svolgere una seconda attività; quelli che aspettano solo il 27 del mese, perché tanto lo stipendio lo porteranno a casa comunque. Contro tutti costoro debbono vedersela quegli insegnanti che invece amano la propria professione, credono nella scuola, si battono per migliorarla e cercano di fare il loro lavoro con divertimento e curiosità.
A questa seconda schiera appartiene senz’altro Marco Iannucci, autore di Diario di un insegnante. Prof. e allievi si raccontano (Prefazione di Enrico Mancini, inEdition editrice/Collane di LucidaMente, pp. 284, euro 16,00 – quinto volume della collana di saggistica Gli itinerari del pensiero).
Il libro, ideale prosecuzione della precedente pubblicazione dello stesso autore, La preghiera laica. Un modo di ascoltare, capire e amare gli adolescenti (Edizioni Tracce, Pescara 2004), si presenta nella struttura di un duplice diario, contestuale e speculare, del professore e degli studenti co-autori, come due modi di vivere e valutare la medesima esperienza scolastica. La forma diaristica riconduce la narrazione al vissuto quotidiano dei protagonisti e alle sue dinamiche, ove si intrecciano anche i piccoli grandi eventi “storici” di ciascuno e di tutti, nella loro concretezza, verità esperienziale ed umiltà. L’ordito ha un dritto (le lezioni, annotate limitatamente agli aspetti che hanno interagito con i ragazzi) e un rovescio, fatto di tentativi, sforzi, crisi, scoraggiamenti, giorni sbagliati, timori, dunque di fili spezzati o di dialoghi incompiuti ecc. di modo che il saggio è l’unione di entrambi i lati della tessitura.
L’opera offre, come afferma nella Prefazione Enrico Mancini, «il ritratto di una scuola che non è solo trasmissione codificata, ma in cui l’insegnante è consapevole che comunque trasmette qualcosa di sé. Consapevolezza che rende consapevoli anche gli alunni, in un gioco “illuminista”, entro il quale le regole si apprendono a carte scoperte: questione di etica. D’altronde, non si è detto che l’insegnamento o è etico o non è insegnamento?».
Tratti da Diario di un insegnante, proponiamo la lettura di due brani, nei quali insegnamento filosofico e dialogo docente-allievi si compenetrano perfettamente…
Oggi, in 1° liceo, riprendo dal concetto di filosofia, su cui mi sono già soffermato. Ne chiarisco le origini e le diverse definizioni: la filosofia nasce dallo stupore, la filosofia è ridere di se stessi, è desiderio di sapere. La filosofia è come un prurito, una smania. L’ansia, l’inquietudine, il dubbio, la mancanza di, sono i tratti distintivi della filosofia, e tutti rinviano e implicano la necessità della ricerca.
Mentre mi attardo nella spiegazione, mi accorgo che Marco non fa che agitarsi nel suo banco: si gira in continuazione, ammiccando e ridendo, verso i suoi compagni.
«Che cosa c’è di tanto divertente?» gli domando.
«Niente, prof.» risponde «prima credevo che il bisogno di grattarmi la schiena dipendesse dal prurito che mi prende quando ascolto una lezione, ma ora, dopo la sua spiegazione, mi rendo conto che in realtà io stavo semplicemente filosofando».
«Bene, ragazzi, abbiamo un filosofo in classe, e non ce ne eravamo accorti! Ed è pure spiritoso!».
Continuando nel mio proposito di illustrare il concetto di filosofia, osservo che è l’unica disciplina, composta di due termini, che contiene la parola “sentimento” (philìa legame, affetto, amicizia, anche se comunemente viene tradotta con “amore del – o per il – sapere”). In effetti, il concetto di filosofia presenta molte affinità con quello di amore. Perciò, certo che, al solo evocare la parola amore, i miei baldi ragazzi drizzeranno le orecchie, dirigo la loro attenzione su tale concetto e sulle sue origini, avvalendomi del racconto che ne fa Platone ne Il simposio. Fornisco ai ragazzi le fotocopie de Il simposio, di cui leggo alcuni brani: Amore è figlio della dea della povertà, Penìa, e del dio dell’ingegnosità, Poros. Procedo in parte leggendo, in parte raccontando e commentando la storia di Amore, affinché abbiano la possibilità di cogliere l’acutezza del discorso platonico e di accostarsi a un autore attraverso un tema che essi senz’altro prediligono. Dal canto mio, mi esalto sempre quando racconto che Amore, grazie alle caratteristiche materne, desidera continuamente ciò di cui manca (ad es. la bellezza), così come in virtù delle doti paterne, riesce ad appagare i suoi bisogni che, tuttavia, una volta soddisfatti, si ripresentano daccapo, in un processo che non si esaurisce mai. A mano a mano che procedo nel racconto, alternato alla lettura dei brani più significativi del testo platonico, sento montare la curiosità dei ragazzi: risulta palpabile dall’espressione divertita e stupefatta dei loro volti, provocata dall’apprendere che più di 2400 anni fa un tale di nome Platone ha detto dell’amore cose che loro stessi incominciano a percepire in un modo più o meno confuso.
Mi fermo un attimo e sollecito Jenny a fare un commento a caldo o a rivolgermi delle domande. Dal suo intervento, che risulta un mix di commento e domanda nello stesso tempo, intuisco che il messaggio è arrivato a destinazione: «Quando sono innamorata di un ragazzo, poiché ne sento la mancanza, lo cerco continuamente, in questo caso è il desiderio di lui a spingermi a cercarlo. Fin qui il discorso mi è chiaro e sono d’accordo. Ma se anche lui desidera me e ci mettiamo insieme, che cosa vuol dire che, una volta ottenuto quel che desideravo, l’amore finisce? E perché dovrebbe finire?».
«Certamente finisce o si spegne a poco a poco» le rispondono in contemporanea Alessandro e Ilaria «se ti accontenti, se non fai (fate) nulla per tenere sempre accesa la fiamma del desiderio, se ti lasci (vi lasciate) vincere dall’abitudine».
«Bene. Mi fa piacere» osservo «che ci siano degli esperti in questo campo! A mo’ di variante, ma speculare al discorso introduttivo sulla filosofia, sottolineo la necessità di affrontare con entusiasmo, con passione qualsiasi attività: un atto d’amore – faccio notare – deve sempre precedere e accompagnare ogni nostra azione. Occorre accostarsi a uno scrittore, a un filosofo, concedendogli il massimo credito, tutto il nostro entusiasmo. Senza adorazione per lo scrittore, per il filosofo e senza la consapevolezza che tutto il mondo è in quello scrittore, in quella filosofia, la letteratura e la filosofia neppure esisterebbero. E non deve farci velo che l’adorazione, l’eccessivo entusiasmo, possano costituire per noi un impedimento alla sua comprensione. È vero che l’adorazione, la venerazione, non portano subito alla verità, anzi costituiscono un ostacolo alla sua conquista, ma per questa c’è tempo: si potrà e si dovrà cercarla successivamente. Ma senza amore, senza entusiasmo, senza venerazione, non si dà passione, e senza passione non si fa letteratura, non si fa filosofia».
Mi aspettano, in 3^, due ore infuocate, anzi esplosive, per restare alla felice immagine usata da una mia alunna. In pentola c’è la mia ultima lezione su Nietzsche. Tuttavia, dopo aver letto le pagine tratte dal Diario settimanale di Francesca, non penso di riuscire a offrirne qui una sintesi migliore. Forse io non sono in grado di “volare in alto per ritrovare la fonte della gioia!” . Forse i miei occhi avrebbero bisogno di un guizzo più spontaneo, senza mediazioni! Tutt’al più riuscirei a farne un buon riassunto di respiro manualistico, con qualche ventata proveniente da letture di prima mano. Viceversa Francesca, con il suo ardore giovanile, con il suo impeto istintivo, ha saputo andare oltre: è riuscita attraverso una mirabile sintesi a coniugare mente e cuore e a offrirci una lettura spumeggiante e acuta dell’ultimo Nietzsche, limitandosi a coglierne l’essenziale, senza alcun timore riverenziale per lui.
Riconosco volentieri che negli ultimi anni, un numero sempre maggiore tra i miei allievi si è cimentato nella lettura di Così parlò Zarathustra (e di altre opere di Nietzsche) con ottimi risultati, sin dal loro primo tentativo. Lo dico con un pizzico di invidia da parte mia: infatti, quando ero studente universitario, ricordo che ne tentai la lettura più di una volta con scarsi risultati. Solo molto più tardi, da insegnante, ne completai la lettura. Un particolare che ho sempre raccontato ai miei studenti, un po’ perché si accostassero a Nietzsche con la consapevolezza di trovarsi di fronte un autore di non immediata e facile lettura e un po’ perché avvertissero il sapore della sfida: riuscire fin dall’inizio là dove al loro insegnante erano stati necessari diversi tentativi! Devo dire che l’esca della sfida in qualche misura ha funzionato con loro, in questi ultimi anni, assai più che in passato. Forse i giovani di oggi sono pronti ad accogliere il messaggio nicciano più di quanto lo fossero i loro coetanei trenta/quarant’anni fa? L’affermazione di Nietzsche “sono nato postumo” potrebbe autorizzare una siffatta ipotesi? Chissà! Sta di fatto che i vari Federico, Eugenia, Sara, Veronica, Luca, Ludovica, Roberto, Giovanni, Marica, Laura, Francesca, Aulona e poi ancora Michele, Marco e Francesca hanno accettato la sfida e hanno letto con profitto Così parlò Zarathustra.
Perciò mi affido a Francesca per raccontare quella che può essere considerata la mia ultima lezione di filosofia nella sua classe.
Carissimo Diario,
eccoci giunti già a metà maggio. La vita va a gonfie vele, navighiamo come marinai avidi di vedere all’orizzonte il loro approdo, la terra promessa che da tempo aspettiamo di trovare. Per noi quella terra non è altro che il porto a cui migliaia di diciottenni in fermento si augurano di giungere al più presto. Quella terra si chiama esame di maturità, addio liceo, addio adolescenza, nuova vita!!!
Intanto siamo ancora confinati tra gli amati banchi di scuola e navighiamo coraggiosi insieme ai nostri compagni d’avventura. Primo fra tutti l’uomo che uomo non è, l’uomo che è una dinamite, l’uomo che viene a contraddire, l’uomo che si pone al di là del bene e del male, insomma è lui, Friedrich Nietzsche. Quel filosofo che a scuola tutti temono, che solo se senti qualcuno parlartene ti convinci dell’impossibilità di poterlo comprendere. Ebbene per questa volta ci tocca smentire il luogo comune che fa di questo filosofo lo spauracchio peggiore di tutti i tempi, come se fosse un pazzo qualsiasi. Forse sì e forse no, quello che conta è capirlo e rifletterci su, pazzo o non pazzo. A noi, questa filosofia del martello è piaciuta proprio. Forse perché la sua filosofia è diversa, è una filosofia demistificatrice che si allontana dalla solita riflessione sulla conoscenza, l’io, l’infinito, i sensi, l’esperienza, l’esistenza, il singolo e tutto il resto che, a dirla tutta, ci avevano già annoiato da un pezzo.
In questo periodo stiamo trattando l’ultimo Nietzsche e dopo la venuta dell'”Ubermensch”, proprio oggi, il prof. ha parlato di quella che può considerarsi la sua suprema affermazione, ovvero l’Eterno ritorno dell’uguale. È questo uno dei pensieri più profondi e decisivi della filosofia di Nietzsche che ci presenta il tempo non più come lineare, come catena di momenti, bensì come una clessidra eternamente capovolta (“l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”). Dopo più di duemila anni egli recupera una concezione precristiana e la sua visione ciclica del tempo. Da qui la definizione di eterno ritorno come visione della vita in cui ogni cosa è destinata a ripetersi ugualmente. Ci potrebbe sembrare di sentirci intrappolati in questo “ricurvo sentiero dell’eternità”. Ma se così fosse allora non saremmo altro che uomini comuni presi dal terrore e dalla paura perché ancora sofferenti della loro stessa esistenza che è solo tensione angosciosa verso un compimento sempre di là da venire. Non è lui, l’uomo comune, che può gioire alla notizia dell’eterno ritorno ma solo il superuomo, ovvero colui che è capace di vivere la vita attimo per attimo fino alla fine, avendo compreso che il senso dell’esistenza è dentro se stessi e non al di fuori, non al di là di qualcosa. L’annuncio dell’eterno ritorno è presente nella parte centrale di “Così parlò Zarathustra” in cui, attraverso ardite allegorie e metafore, Nietzsche ci dà la formulazione più eloquente di questa teoria. “La visione e l’enigma” è il titolo del discorso in cui si susseguono suggestive immagini sullo sfondo di un sentiero di montagna davanti alla porta carraia su cui compare la scritta “attimo”, seguita da due sentieri che “nessuno ha mai percorso dall’inizio alla fine”, che rappresentano il passato e il futuro. Improvvisamente ecco che si assiste a una trasformazione di scena in un paesaggio lunare desolato con orridi macigni. Al centro della scena un pastore che, mordendo la testa di un serpente, simboleggia l’uomo che “diviene superuomo”, solo a patto di vincere la ripugnanza tipica dell’uomo comune nei confronti della teoria dell’eterno ritorno. Dunque accettare l’eterno ritorno vuol dire essere e divenire finalmente superuomo.
(da Marco Iannucci, Diario di un insegnante. Prof. e allievi si raccontano, Prefazione di Enrico Mancini, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: Campo d’orzo con falciatore nel meriggio (olio su tela, 1889, Amsterdam, Rijksmuseum Vincent van Gogh) di Vincent van Gogh (Zundert, 30 marzo 1853 – Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890), immagine di copertina del saggio di Marco Iannucci.
Jessica Ingrami
(LM EXTRA n. 22, 15 dicembre 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 60, dicembre 2010)