Antropologia medica: un approccio diverso nella tesi di laurea di Giulietta Luul Balestra sul testamento biologico
Nell’intervista che segue, Giulietta Luul Balestra, ventisei anni, bolognese, laureanda in Antropologia culturale ed etnologia presso l’ateneo del capoluogo emiliano, ci spiega il motivo che l’ha spinta a scrivere una tesi di laurea sul testamento biologico e le pratiche di fine vita. Inoltre, attraverso un approccio medico-antropologico, oltre ad occuparsi della mobilitazione civile attorno al tema, illustra il rapporto che intercorre tra lo studio antropologico del corpo e l’argomento che è al centro della sua ricerca.
Che cos’è l’Antropologia medica?
«Per Antropologia medica si intende una branca molto giovane dell’Antropologia. Infatti in senso stretto la si fa risalire agli anni Settanta. Prima gli antropologi si erano sempre interrogati su questioni legate al corpo, alla vita e alla morte, alla salute e alla malattia, tuttavia sempre con una cesura netta tra i sistemi medici “altri”, percepiti come determinati culturalmente, e il sistema medico occidentale, o biomedicina, non problematizzato perché percepito come naturale, dunque naturalizzato. Successivamente alcuni medici, avvicinatisi all’Antropologia per questioni legate alla propria professione, in quanto dovevano rapportarsi con pazienti di diverse culture, iniziarono ad interrogarsi su come applicare il paradigma della medicina per lavorare su un’utenza sempre più multietnica. L’approdo di questo approccio critico è stato quello di cominciare a considerare la biomedicina come un sistema culturale, ovvero analizzarla anche come sistema politico, legato perciò a dinamiche di potere. In sintesi, l’Antropologia “è tornata a casa” e ha cominciato ad interrogarsi sulle dinamiche della propria società d’origine, iniziando a considerare la biomedicina un sistema culturale».
Qual è il titolo della tua tesi di laurea e di che cosa tratta?
«Per il momento è ancora provvisorio. Potrebbe essere il seguente: Il testamento biologico: un’analisi antropologica tra legislazione, mobilitazione locale e pratiche di fine vita. Mi interessa da un lato capire, attraverso l’analisi del contesto legislativo attuale, sia nazionale, sia internazionale, e del Disegno di legge Calabrò, quali sono le tematiche e i fili conduttori antropologicamente rilevanti rispetto al tema del testamento biologico. Dall’altro vorrei capire come il testamento biologico ha indotto un tale coinvolgimento della società civile sulle tematiche del corpo, della malattia e della morte, come avviene la mobilitazione su scala locale, come il dibattito promosso da associazioni, società civile e istituzioni porta avanti la questione, in quali termini e con quali parole chiave. Mi sono concentrata su Bologna con la Rete laica e su Modena, dove il discorso viene portato avanti in parallelo: entrambe le città stanno procedendo sull’istituzione di un testamento biologico. Modena presenta una particolarità: in passato ha utilizzato l’istituzione dell’amministratore di sostegno come succedaneo del testamento biologico. Tale figura mi permette di riflettere sulle modalità con cui una legge crea delle dinamiche a livello relazionale durante la sua applicazione. Sto seguendo tutte le iniziative della Rete laica; sto facendo interviste a persone che si sono occupate della mobilitazione attiva, a coloro che si sono interessati dell’argomento e che nella primavera scorsa hanno compilato il testamento biologico. Domando loro che cosa pensano del testamento biologico, se sentono qualche aspetto più vicino a loro. Molti hanno messo in risalto la questione del fiduciario, perché pone di fronte non solo all’autonomia in senso ideologico ma anche alla relazione. Altri ambiti di indagine sono il contesto di attuazione e attuabilità della legge in discussione alla Camera dei deputati e le pratiche di fine vita nello specifico. Anche per questo motivo indagherò la prospettiva del medico e dei parenti di persone che sono in fine vita».
Qual è l’ipotesi della tua tesi e quali sono i risultati che pensi di raggiungere?
«Non posso parlare al momento di ipotesi, ma solamente di fili conduttori, che non vorrei citare, per non condizionare le persone che in futuro intervisterò. Probabilmente la mia ipotesi può essere sintetizzata nel seguente modo: il testamento biologico e le pratiche di fine vita hanno un effetto di responsabilizzazione rispetto ai temi della vita e della morte. Ma è ancora tutto da verificare, perché finora ho somministrato poche interviste. Lo stesso vale per i risultati: più che di questi ultimi, posso parlare di un filo comune, ovvero una critica verso l’alta medicalizzazione della morte. Non è l’unico, ovviamente, ma è un elemento evidente e quasi costante nelle interviste finora svolte».
Come si collega l’Antropologia medica al testamento biologico?
«Ci sono diversi legami, alcuni probabilmente si evinceranno solamente al termine della tesi. L’Antropologia medica ripensa alle concezioni profondamente radicate e legate al corpo, alla vita e alla morte; il testamento biologico sorge dall’interazione di tutte queste rappresentazioni, oltre al contesto nel quale nasce e che sta dietro ad esso, ovvero le pratiche di fine vita, la legislazione e la sua portata valoriale.
Ciò che a me interessa è comprendere come queste concezioni siano insite nei discorsi, nelle pratiche e nelle intenzioni delle persone che le producono».
Come la tematica del testamento biologico si traduce in mobilitazione a livello locale tramite l’azione delle associazioni e della società civile?
«Innanzitutto mi colpisce il fatto che questa sia una mobilitazione a livello nazionale, un “serpentone” che coinvolge tutta l’Italia. Associazioni e società civile si stanno muovendo in una direzione che tende a scavalcare le istituzioni statali, che mira a prevenire gli effetti di una legge che potrebbe essere troppo restrittiva. Ma è anche una mobilitazione molto eterogenea, perché in ogni città ci sono protagonisti diversi. Nella stessa Bologna si è creata una situazione eterogenea, per cui i partecipanti alla Rete laica non hanno idee politiche e ideologiche comuni, tuttavia si sono avvicinati tra loro grazie alla tematica delle pratiche di fine vita; spesso sono persone che hanno ben poco in comune le une con le altre, l’ho notato anche quando ho partecipato ai tavoli della Rete. Questo può essere giustificato dal fatto che è un tema che rende tutta la cittadinanza italiana partecipe».
Come hai vissuto il caso Englaro? Hai previsto un’intervista con il padre ai fini della tesi?
«È stato un caso molto importante, perché ha avuto la capacità di smuovere un interesse concreto e collettivo verso la tematica del testamento biologico e delle pratiche di fine vita. Ha avuto il pregio di risvegliare nelle persone un livello profondo di interesse e un moto di sdegno, in sostanza ciò che il padre di Eluana Englaro auspicava. Non ho pensato finora di intervistare il signor Englaro, anche se mi piacerebbe. Immagino che sia molto impegnato per potermi ricevere. Tuttavia ho conosciuto personalmente Mina Welby. L’ho incontrata ad un seminario lo scorso settembre. Mi ha colpito molto il fatto che lei sia molto impegnata sul fronte politico; nonostante ciò, riporta sempre la sua esperienza sul piano personale, mai su quello ideologico. Perciò, in questo, come in altri casi noti o ignoti (nel senso che alcuni intervistati “sconosciuti” all’opinione pubblica mi raccontano le proprie esperienze personali), “dialogano” il racconto della propria “militanza” e la propria esperienza personale. Questo dovrebbe spiegare come ci debba e possa essere qualcosa tra la politica, l’ideologia e le vicende personali che possa indurre a scegliere di impegnarsi a favore di questo ideale, uno spazio mediano tra la dimensione pubblica e la sfera privata che deve e vuole avere voce».
Che cosa ti ha indotto a scegliere il tema del testamento biologico e delle pratiche di fine vita per la tua tesi di laurea?
«Sicuramente il “caso Englaro” mi ha smosso qualcosa. In ogni caso in generale sono interessata alle tematiche che concernono il corpo e il potere. E credo che il genere femminile possa sentire questa tematica più in profondità, possa essere più sensibile alle dinamiche di potere che hanno la capacità e facoltà di decidere sul corpo delle persone (come per esempio nel caso dell’aborto), sempre che abbia voglia di riflettere sulla questione».
L’immagine: Giulietta Luul Balestra al lavoro sul proprio progetto.
Francesca Gavio
(LM BO n. 5, 23 novembre 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 47, novembre 2009)