I sistemi di videosorveglianza sono sempre più pervasivi, chiediamoci se sia giusto accettarli in nome di una maggiore tutela o se sia legittimo mostrare qualche riserva
«Big Brother is watching you»: così circa settant’anni fa il romanzo distopico 1984 di George Orwell pronosticava l’arrivo di una società ipercontrollata e ipercontrollante, dove l’occhio sociale vigila su tutto e lo spazio di libertà individuale non è nemmeno un lontano ricordo, perché persino i libri di storia sono stati cambiati. Il tema della diffusione capillare dei sistemi di videosorveglianza – per alcuni garanzia di sicurezza, per altri lesivi del diritto alla privacy – diventa giorno dopo giorno più stringente, con telecamere nelle scuole, nelle case di cura, negli ospedali, sui mezzi pubblici, sulle mura esterne di case private.
Dal momento che l’attività di videosorveglianza è ritenuta altamente invasiva, la sua giurisdizione ricade nell’ambito del Garante per la tutela dei dati personali. Il provvedimento generale dell’8 aprile 2010 prevede che ci debba essere un bilanciamento tra la sicurezza e prevenzione dei reati e i diritti dei cittadini. In aggiunta, lo scorso luglio il Comitato europeo per la protezione dei dati (Edpb, European data protection board) ha fornito alcune linee guida al loro trattamento tramite dispositivi video (General data protection regulation). Per quanto riguarda l’uso di telecamere, i presupposti da rispettare sono due: il rispetto della libertà dei cittadini, che devono poter circolare nei luoghi pubblici senza sentire violata la loro privacy, e l’esigenza di garantire la sicurezza di tutti. In particolare, l’attività di videosorveglianza è consentita solo se si rispettano i principi di: liceità, che riguarda le funzioni istituzionali per gli enti pubblici e il consenso libero ed espresso delle persone riprese per i privati; la necessità, ovvero l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo con modalità diverse; la proporzionalità, che prevede la telecamera solo come misura ultima di controllo; la finalità, ossia l’uso di videosorveglianza esclusivamente per il controllo della propria attività.
È inoltre obbligatorio per i privati, e consigliabile per il pubblico, apporre un cartello prima dell’inizio dell’area inquadrata che permetta di decidere liberamente se accedere o meno. Il materiale ripreso deve essere conservato per massimo 24 ore o, in caso di situazioni straordinarie come ferie, chiusure o con indagini in corso, può arrivare a sette giorni. Qualche mese fa, con un emendamento al cosiddetto decreto sblocca-cantieri, è stato predisposto lo stanziamento di cinque milioni di euro per il 2019 e di altri quindici per ciascun anno fino al 2024 per l’acquisto e l’allestimento di sistemi di videosorveglianza nelle scuole; altrettanti soldi verranno investiti nelle case di cura. Infatti, i numerosi fatti di cronaca sulle violenze ai bambini e agli anziani hanno fatto sì che il Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori) non potesse più rimanere indifferente alle proteste dei cittadini.
Certo, non per tutti si tratta di una vittoria, soprattutto non per gli operatori del settore. Antonello Giannelli, presidente dell’Anp (Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola), afferma: «Le scuole non hanno tutti questi soldi: i fondi a disposizione non bastano neanche per coprire tutte le spese, dalla carta igienica alla cancelleria. Spesso contano sul contributo volontario delle famiglie: avranno più impronte digitali e meno carta igienica, rischiando di aver sempre più bisogno di aiuto». E rimarcano i sindacati, con la Cgil in testa: «Le telecamere non sono la soluzione ai problemi che quotidianamente vivono le lavoratrici e i lavoratori impegnati nei servizi educativi come in quelli sanitari e assistenziali. Si sta svilendo così la professionalità, si criminalizza il lavoro e ci si dimentica dei problemi che i lavoratori vivono tutti i giorni, dalle condizioni in cui operano alla carenza drammatica di risorse». La sorveglianza prosegue anche sui mezzi pubblici, con Atm (Azienda trasporti milanese) come apripista. Secondo la redazione milanese del Corriere della Sera, l’azienda controlla 6.100 telecamere, di cui 1.700 a bordo dei mezzi. Le immagini registrate possono essere mandate direttamente alle forze dell’ordine, dove vengono conservate per 72 ore.
Continua, sempre a Milano, la vigilanza con l’operazione sperimentale “Occhio di aquila”, che controlla il pagamento della sosta delle auto sulle strisce blu e gialle. Si tratta di una telecamera che può leggere le targhe delle macchine e dialogare direttamente con il server che le gestisce, determinando se il veicolo è in divieto o meno. La telecamera è montata direttamente su una delle macchine di Atm, che sembra passare da azienda del trasporto pubblico a organismo di controllo. Pure al supermercato le cose non vanno meglio, con la prova del sistema pick and go: alla lettera, “prendi e vai”. In pratica, ci si reca nel negozio, si fa la spesa e si esce senza pagare, o almeno, non subito: un sistema di telecamere registra tutto ciò che mettiamo nel carrello e ci addebita la spesa direttamente sul conto corrente, eliminando così la presenza delle casse. Secondo Il Sole 24 Ore, anche Conad si sta attrezzando in questo senso, avvalendosi di un carrello con telecamere a bordo che permetteranno la gestione automatica del pagamento in fase d’uscita.
Risale alla scorsa primavera una sentenza della Corte di Cassazione che liberalizza l’uso di telecamere sui muri perimetrali esterni delle abitazioni private, anche se puntate verso la pubblica via. Infatti, se posizionate per tutelare la sicurezza di beni privati, non si commette alcun reato, previo un cartello ne indichi la presenza. E anche se la cosa ci può far sentire spiati da un Grande Fratello del vicinato, pazienza, l’unica alternativa possibile è cambiare le nostre abitudini stradali. Uscendo dal Bel Paese, ci accorgiamo che ci sono posti dove in campo di libertà personali e videosorveglianza se la passano decisamente peggio. A Hong Kong da diversi mesi proseguono gli scontri nell’ambito della nuova rivoluzione degli ombrelli, che prende il nome dalle proteste del 2014 per maggiori libertà democratiche nell’ex colonia inglese (gli ombrelli venivano e vengono usati per difendersi dagli spray urticanti e dai lacrimogeni della polizia). «Le nuove manifestazioni sono cominciate all’inizio di giugno e dapprima riguardavano l’emendamento a una legge sull’estradizione che, se approvato dal Parlamento locale, avrebbe consentito di processare nella Cina continentale gli accusati di alcuni crimini gravi, come lo stupro e l’omicidio», si legge su un articolo del Post del 17 agosto scorso. La posizione di Hong Kong è infatti particolare: si tratta di un territorio controllato dalla Cina, ma che storicamente ha sempre mantenuto una propria autonomia, e che fino a qualche decennio fa era sotto la giurisdizione britannica. Nel corso della protesta, che si è estesa a tutte le fasce sociali e anagrafiche, è stato abbattuto anche un palo metallico che recava in cima un dispositivo per il riconoscimento facciale (qui il video).
Ma attenzione, perché nulla è perduto. Con il vestito giusto si possono eludere anche i sistemi di videosorveglianza. La cyber esperta e designer Kate Rose ha ideato una linea di abbigliamento chiamata Advertarial fashion: si tratta di abiti pieni di targhe che mandano letteralmente in pappa le telecamere. «Il sistema di sorveglianza di massa invade ogni parte della nostra vita. Ma se può essere ingannato da un tessuto, forse non dovremmo farci così tanto affidamento», conclude la Rose. Ma se dobbiamo ricorrere a stratagemmi di questo tipo – più un atto dimostrativo, che un vero e proprio progetto – per difendere la nostra libertà di individui, siamo certi che il gioco valga la candela?
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIV, n. 166, ottobre 2019)