In LM EXTRA n. 15 del 15 giugno scorso avevamo presentato Dal fondo del metallo (pp. 64, € 12,00, sesto volumetto della collana di letteratura Nerissima della inEdition editrice/Collane di LucidaMente) di Erika Dagnino. Quasi contemporaneamente, della stessa autrice è uscito I canti dell’occhio (CSA Editrice, pp. 48, € 8,00), nel quale troviamo ancora un susseguirsi di affascinanti “poemi in prosa”, frammenti epifanici e sincopati, come cupi bagliori di free jazz.
Ecco tre brani (VI-VIII) inseriti nella prima parte dell’opera.
VI
Ci offrono, al di là di ogni nostra impronta, le resine, un vago odore di mortalità.
Fiduciose della loro sorte di corteccia, del pezzo di tronco staccato, a terra
come crosta caduta in anticipo, in tempo per rivelare una specie di irrespirabile infezione.
E’ nel fondo del mio occhio che bevi il mio bacio, la sua stessa acqua conduce la visione,
la sua congenita trasparenza; al tuo gesto lascio una specie di urto; porta con sé,
soprattutto al bianco, un cambiamento di cromatiche sfumature.
Non è il tempo che cambia le cose. Mutiamo alle spinte delle nostre direzioni.
Di ombra in ombra giaci al fondo del mio sguardo, il respiro non si spartisce ad annebbiare la vista, quando annebbia schiude l’accedere alla diversa realtà. Fuori di noi può essere notte, o forse giorno;
è dal fondo degli occhi che superiamo questa regolare alternanza.
VII
Per sostenerci sul suolo dissestato, ci aggrappiamo alla persistenza del ramo.
E’ un’umidità di strappi quella che affiora al solco dei nostri palmi. Non ci desta neppure l’esitazione di fronte al pesante tronco, abbattuto dal soccorso del mal tempo.
Dal nostro gesto sgorga quel po’ di sangue che avverte della consistenza dei nostri echi. Sono le caviglie a tenersi in bilico tra una corteccia e l’altra, le caviglie a sorvegliare e sorvegliarsi, come se tra il vento e il mare l’unica via fosse un’aperta tagliola.
La nostalgia sta all’esilio come l’incompiutezza sta all’immortalità.
Aspettiamo guardando verso il buio il passaggio di una meteora nera. Aspettiamo guardando verso il buio il nero di ogni buio passaggio. Il freddo ci risparmia il lavorio visibile del formicaio.
La purezza di un qualunque occhio animale, remoto al fantasma di qualunque dissonanza.
VIII
Taglia il fogliame le tue labbra, quasi fosse la stessa tua bocca a masticarlo.
Vicino al nostro spazio un’aria dall’aspetto notturno incute legno e fradiciume. Eppure la pioggia
ha la stessa durezza della pietra o affilata o fondo. Se guardiamo la metà luminosa di un cerchio, al nostro posto la pozzanghera assume il tempo. Se guardiamo l’ombra, così ogni corpo assume la sua distanza. Provo a toccarti come fossi di lago e di lago e di labbra, mi fermo prima di ogni scrupolosa calcificazione, per il respiro a contatto con il freddo. Giace sul fondo ogni tremolio supino, appena appena allungandosi come l’occhio di ciascuna lumaca; se ritraendosi, dove si ritrae, si ritrae, e diventando soltanto corpo.
(da Erika Dagnino, I canti dell’occhio, Postfazione di Massimo Caviglione, CSA Editrice)
L’immagine: la copertina del libro.
Jessica Ingrami
(LucidaMente, anno IV, n. 44, agosto 2009)