Il regista Alessio Cremonini ripercorre l’ultima settimana di vita del trentunenne romano, morto nove anni fa in mano allo Stato, nella violenza, negli abusi, nella solitudine e nell’inedia
15 ottobre 2009, giovedì. Stefano va a correre, poi in chiesa, si scambia il segno di pace. Va al lavoro, in palestra, a casa, divide l’hashish in dosi. Va a cena dai genitori, esce con un amico, lo fermano i carabinieri. 22 ottobre 2009, giovedì. Alle 6 del mattino gli infermieri entrano nella stanza del detenuto Cucchi per un prelievo, trovandolo morto. Sette giorni, tanto è durato il suo strazio, in una condizione di sospensione del diritto dentro quattro mura facenti parte di quello che dovrebbe invece essere proprio uno Stato di diritto.
Sette giorni ripercorsi nel film Sulla mia pelle, diretto da Alessio Cremonini, presentato alla 75ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il 29 agosto 2018. La pellicola – uscita in contemporanea nelle sale, distribuita da Lucky Red, e su Netflix il 12 settembre – ha scatenato immediatamente reazioni contrastanti, di plauso e biasimo incondizionati. Non sono queste, però, il tema di questo articolo. Si è già detto – e si continuerà a dire – molto su quanto il film di Cremonini possa essere rivoluzionario, provocatorio, antisistema. Ma Sulla mia pelle è prima di tutto un film bellissimo. Alessandro Borghi, che interpreta Stefano, è talmente bravo che sembra un intruso, uno che lì ci si è trovato per caso ma ormai è troppo tardi per uscirne. Vorresti prenderlo per la mano, tirarlo fuori, perché è una persona che hai visto, conosci, esiste. Anzi, esisteva. Quindi non puoi, stai seduto e lo guardi crepare, piano piano. Sei impotente e rabbioso, poi triste, poi di nuovo rabbioso. E dire che neanche ti piace, Stefano. Uno spacciatorello insolente, di quelli che sembra sempre che ti stiano prendendo in giro.
Siamo stati abituati a vedere la droga legata a doppio filo con il disagio: genitori abusivi, assenti, alcolizzati; indigenza estrema; solitudine. Stefano invece ha tutto: una madre, un padre e una sorella amorevoli – interpretati rispettivamente da Milva Marigliano, Max Tortora e Jasmine Trinca –, un lavoro, una casa. L’abitazione dei suoi genitori, illuminata da una luce calda, accogliente, gialla, è un nido, con le tovaglie a fiori, i quadri di nature morte, le cornici brutte e gli attimi di vita che contengono. Però Stefano esce e non capisci perché. Forse nemmeno lui. Così, quando vede il padre il giorno dopo, in tribunale, ultimo viso familiare, gli dice: «Era meglio che dormivo da voi».
Chissà quante volte ci ha pensato, in quella settimana, alla tovaglia a fiori, illuminata da quella luce gialla che stride così tanto con la luce bianca dei neon carcerari, alternata al buio. In quel preciso istante, quando viene disposta la custodia cautelare che sarà la sua condanna a morte, nell’ultimo disperato abbraccio con il padre, si rompe ogni grado di separazione. È una sensazione fisica, viscerale, vedere il suo corpo magro, giovane, sano, sparire lentamente, accartocciarsi su se stesso. Il viso gonfiarsi giorno dopo giorno, cambiando i suoi connotati e i lividi diventare sempre più rossi e spettrali. L’acme si tocca nelle urla di dolore dei genitori davanti al corpo. Una pietà michelangiolesca, privata però dell’ultimo contatto fra madre e figlio, che rende tollerabile la visione del capolavoro rinascimentale. Nessuno a cullarlo, un corpo reso intoccabile dal vetro, illuminato dal neon che ne evidenzia i segni del martirio. Si può, si deve anzi, parlare di Stefano Cucchi come di un martire civile. La sua morte assurda, causata, secondo le accuse, dai carabinieri che lo hanno pestato, ma anche da polizia penitenziaria, avvocati, magistrati, medici, infermieri, deve esserci di monito (vedi, sempre in questo numero di LucidaMente, Taser, violenza e forze dell’ordine, tra eroismi. abusi e colpevoli silenzi).
Il suo corpo diventa una bandiera, di fronte alla quale non si può distogliere lo sguardo, delle cose che abbiamo il dovere di cambiare. Dobbiamo portarlo addosso, vestirci della sua immagine e lottare affinché questo non succeda mai più. Chi lo ha picchiato lo ha fatto perché voleva e poteva, e ad oggi non ci sono ancora colpevoli per la sua morte. La storia che ci viene narrata è di una quotidianità disarmante, nelle premesse e nei protagonisti. Chi dice che ci sia qualcosa di sovversivo nel raccontarla ha solo paura di ascoltare e di rendersi conto che Stefano è anche sulla sua pelle.
Le immagini: la locandina del film Sulla mia pelle di Alessio Cremonini e Stefano Cucchi con la sorella Ilaria.
Ludovica Merletti
(Lucidamente, anno XIII, n. 154, ottobre 2018)