Una mattina della primavera del 1456, Peruzza, vecchia contrabbandiera del ferro e del sale, entra nel borgo di Talada, sull’Appennino emiliano, accompagnata da una luna indifferente e dall’inquietante presenza della donna dai capelli rossi che compare e scompare, a tratti, tra le fronde. La contrabbandiera arriva dalla Garfagnana e pare nascondere qualcosa.
Perché si spaventa quando un vecchio le chiede della lacca scarlatta usata dai pittori e del piccolo Pietro rapito dai briganti? E che cos’è quel libro prezioso che lei cerca e che alcuni vescovi profughi dalla Turchia avrebbero trasportato su quelle montagne? Che cosa vuole da lei l’ostessa dai capelli rossi? Non doveva essere morta? I ricordi si affollano nella sua mente, in un crescendo di eventi tragici in cui entra Pietro, rapito anni prima a Talada dal brigante Noè e poi diventato un grande pittore grazie all’incontro con il cartografo frate Mauro.
Il destino del Maestro di Borsigliana, Pietro da Talada, si intreccia con quello di Lucrezia Fina, bambina obbligata a un matrimonio da cui si difende con il digiuno forzato, e di Orsola, cortigiana adolescente, che lo inizia all’amore. E Peruzza, che in realtà non è soltanto una commerciante di frodo, ma una brigantessa della banda di Noè, si trova, suo malgrado, a doversi occupare sia di Pietro sia della giovane sposa fuggiasca. In seguito, il pittore tornerà a Talada per scovare il libro misterioso, il Corpus ermeticumdi Ermete Trismegisto, che conserverebbe i segreti del mondo, e abbandonerà, partendo, un trittico incompiuto della Vergine che insegna a leggere al Bambin Gesù, per il quale aveva posato Lucrezia Fina, da lui aiutata a fuggire dalla casa dove il marito stava morendo di peste.
Personaggi realmente esistiti, frate Mauro e Pietro, pittore del neogotico italiano, si muovono in un contesto storico nel quale la brutalità dei condottieri di ventura, l’infierire delle pestilenze e la situazione di oppressione di donne e bambini vengono appena compensati dal fiorire delle arti e delle lettere nelle città toscane. E proprio dal Beato Angelico e da Filippo Lippi, Pietro impara i segreti dei colori, mentre si istruisce nella lettura e scrittura grazie a frate Mauro.
Da ogni pagina del romanzo trasuda il furente amore per un realismo assolutamente aderente alla vita, la quale non può che rimandare alla vita stessa. Un vitalismo che non ha niente di idilliaco, ma a cui è sotteso un immancabile compenetrarsi tra i personaggi con il loro caratteri e la natura. Una natura simbolica, mitica, remota, in cui la realtà perde le dimensioni del tempo (il tempo degli uomini), per riacquistare il tempo della Luna. La Luna dalla pelle impura, la cui faccia è immortalata da un misterioso Dàimon rupestre nelle pietre che ogni protagonista del romanzo reca con sé.La donna e la sapienza
Questo terzo tassello di Albertini fa parte di un cimento più grande, più appassionato: la ricostruzione di una mitologia al femminile; il tentativo di riappropriazione di un simbolismo scippato alle donne da secoli di patriarcati variamente coercitivi.
Qui le donne non sono al completo margine. Sono, a loro modo (per costrizione, inganno, abuso, storia e loro stessa, antica, non ancora contrastata, funzione), segregate e umiliate, tranne che nel Tiaso. Apparentemente. E raramente dedite all’assaggio di un giorno fuori dalle righe con l’amante, lo stesso per la sposa e la cortigiana e per tutte, proprio tutte, le “fate lavanderine”. Dominare e controllare il tempo, ci dice Albertini, è dovere delle donne, siano esse cortigiane o fate. Oppure «Devi far paura, se vuoi salvarti!»: ecco l’embrione del riappropriarsi delle donne della loro storia, del loro posto nel mondo.
Fanciullezza negata
Il mondo è scrutato in arcobaleni e riprodotto da disegnanti fanciulli, umiliati dalle scelte del potere e dalle strutture sociali. E, in questo senso, la soluzione dell’abbandono del sogno pittorico, quale folata inconsulta del piccolo, non può non sorgere come stoccata o rimprovero, proprio dal simbolo dell’errore sociale per eccellenza: l’adulto potere. È il grande a consigliare “caldamente”, violentemente, l’abiura del sogno: «Lascia perdere i colori. Con i colori non si mangia». Ma il sogno è così forte che anche la negazione imposta diventa colore; il colore delle cose tutte, di ogni elemento, il colore dei colori: «Che bel colore, però. Chissà se il colore delle piante, degli animali, degli esseri umani usciva dalla loro anima o dal sole, se arrivava da dentro o da fuori».
Soltanto un bimbo, fin quando non ridotto a larva di adulto annientato, può «percuotere la terra», può «allargarla». Egli, il bambino, «ribaltava il nero tramutandolo in più ardente castano nel mezzo del sottile piovasco che, insolente, irritava il lavoro». Il mondo non gli si è ancora parato innanzi con guerre e padroni, e può ancora amare «la risata del latte, la cantilena dei campanacci».
A proposito di morale
Bisogna proprio «diffida[re] sempre di chi vuole fare il mondo piccolo per apparire più grande». Del bambino, Dio delle bambine e non degli uomini, il quale sa che quando la donna è finita, riesce ancora a essere per l’uomo. Infine, dopo il rumore, sua trasformazione, autoespressivo del mondo, vi è l’ordine del libro, lo stesso forse cercato dal cartografo [Mauro]. Un libro, più che scritto, scolpito nelle proprie stesse viscere di tensione epocale.
La morte e la servitù sono unite indissolubilmente nel simbolo matrimoniale di Rodolfo e Lucrezia. La peste non li unirà; meglio, li scioglierà dal vincolo e dalla forma. Il libro dice: è questo, proprio questo che viene fatto alle donne da secoli: l’“amore” con la “forza”. E Dio, che ci si creda o no, è la più grande, la prima poetica eresia, e noi dovremmo essere tutti eresiarchi, per forza e volere del cambiamento.
L’immagine: la copertina del libro di Normanna Albertini.
Jessica Ingrami
(Lucidamente, anno V, n. 52, aprile 2010)