Il film di Noah Baumbach, distribuito da Netflix, è candidato a cinque premi Oscar
Il matrimonio è uno dei topos tradizionali del cinema, dalla commedia all’italiana, ai (vecchi) blockbuster campioni d’incassi, ai film di Woody Allen. Spesso il “sacro vincolo” viene rappresentato attraverso le lenti distorte dell’ironia, che rimanendo a distanza sbeffeggia le relazioni amorose, esorcizzando così una delle paure ancestrali dell’essere umano, quella di rimanere soli. In Storia di un matrimonio (Marriage Story, di Noah Baumbach, Usa, 136’, 2019), invece, la narrazione dei fatti è crudamente vera: niente occhiali colorati o zucchero per mandar giù la pillola.
Nicole e Charlie si stanno separando, e non c’è niente di divertente in questo. Lei – interpretata da Scarlett Johansson, candidata come miglior attrice in un film drammatico ai Golden Globe e come miglior attrice protagonista agli Oscar – è nata e cresciuta a Los Angeles, in mezzo agli attori; è diventata famosa per un ruolo in una teen comedy degli anni Novanta, nella quale compare anche a seno scoperto. Lui (Adam Driver, candidato come miglior attore protagonista in un film drammatico ai Golden Globe e come miglior attore agli Oscar) viene dall’Indiana e da un’infanzia difficile, fatta di alcol e violenza; giovanissimo e senza “rete di sicurezza” va a New York, dove inizia una carriera come regista di teatro d’avanguardia. Dopo averlo conosciuto, Nicole lascia l’assolata L.A. per calarsi in pieno nella vita del geniale compagno: diventa la sua prima attrice, sua moglie e madre di suo figlio, Henry.
I primi fotogrammi raccontano giorni che scorrono sereni e felici, un quotidiano fatto di gesti familiari ripetuti, di un’abitudine che rassicura come le favole che ogni sera Nicole legge a Henry. Ma si tratta di un dolce/amaro che si svela in fretta, perché dalle scenette tenere della famiglia newyorkese si passa allo studio dove la coppia sta facendo terapia, per tentare di gestire al meglio la fase finale del rapporto.
Quella che inizialmente vuole essere una separazione civile e senza avvocati, diventa man mano una guerra di territorio, dove ognuno si polarizza nel proprio individualismo. Se nel matrimonio la coppia era come una figura a incastro dove i pieni riempivano i vuoti, con la separazione i due si riscoprono individui, fatti di peculiarità forti che reclamano spazio. L’inizio di una serie tv di cui è la protagonista diventa per Nicole il pretesto per tornare finalmente a Los Angeles, patria del cinema. È qui che con l’aiuto di Nora (Laura Dern, Golden Globe come migliore attrice non protagonista), la legale comprensiva e determinata che la rappresenta, si riappropria della sua identità. La scena nella quale Nicole racconta la sua versione della storia è una prova di bravura della Johansson, un monologo denso e potente.
A quel punto Charlie, nel tentativo di difendersi dal women power che vorrebbe farlo apparire come un marito disattento e un padre poco presente, assume a sua volta uno squalo da tribunale, un abbronzatissimo Ray Liotta, che interpreta l’avvocato senza scrupoli Jay Marotta. Charlie e Nicole si ritrovano così a recitare le parti di un matrimonio il cui copione viene scritto ad hoc, e in cui ogni dettaglio può voler dire tutto e il contrario di tutto.
La guerra che inizialmente nessuno dei due diceva di voler fare diventa senza esclusione di colpi, in un climax di violenza psicologica che culmina nella scena dello scontro verbale tra i due, esempio di bravura degli attori protagonisti. La Johansson abbandona i panni della donna sensuale e accogliente, che spesso ha vestito, favorita dalla sua fisicità da pin up, per abbracciare quelli del look quasi androgino della prima parte della pellicola. L’aspetto di Nicole rivela molto del suo cambiamento: dagli abiti scuri e informi indossati a New York, si passa alle camicette colorate e ai cardigan chiari di Los Angeles, che con il suo sole sembra farla rifiorire. In una delle scene finali, in cui la donna interpreta con la madre e la sorella un brano del musical Company (Broadway, 1970), la blusa a fiori e il biondo radioso dei capelli illuminano la sua nuova vita a Los Angeles, fatta di amici (suoi), rapporti caldi e indipendenza economica. Alla performance canora della Johansson fa da contraltare quella di Charlie a New York, che si trova nel solito bar con la sua compagnia teatrale.
Nel buio del locale Driver interpreta una delle canzoni finali di Company, la struggente Being Alive, dove si dice che, nonostante ci siano molte buone ragioni per non stare con qualcuno, non ce n’è nemmeno una buona per stare da soli. Il brano sembra un’ottima chiusa per un film che non fa morali o prediche, ma racconta la fatica che bisogna fare quando capiamo che i panni che abbiamo indossato per tanto tempo, e anche bene, iniziano a starci stretti.
Le immagini: la locandina del film, Scarlett Johansson e Adam Driver (a uso gratuito da Wikimedia).
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XV, n. 169, gennaio 2020)