Alla XII edizione del Festival di “Internazionale”, tenutasi a Ferrara nello scorso ottobre, si è discusso anche di male gaze, femme advertising e modelle transgender…
Nel corso della XII edizione del Festival di Internazionale (dipanatasi dal 4 al 6 ottobre scorsi e, come di consueto, a Ferrara), si è affrontata una tematica particolarmente attuale: la rappresentazione delle donne nell’immaginario comune. Logicamente, all’incontro intitolato Questione di sguardi, tenutosi sabato 5 ottobre presso la Sala estense, a parlare di stereotipi di genere sono state, appunto, tre donne – Christina Knight, direttrice dell’agenzia pubblicitaria svedese The amazing society e autrice del libro Mad women: a herstory of advertising, Livia Podestà, italiana residente da tredici anni in Svezia, dove lavora allo Swedish Institute di Stoccolma, e la giornalista di Internazionale Giulia Zoli.
Tuttavia, potrebbe meravigliare (o magari no) che si parli della Svezia, un Paese modello per la parità di genere. Là il congedo parentale è realtà dal 1974 – 16 mesi da dividere tra la coppia in cui si percepisce l’80% dello stipendio –, il governo ha una «politica estera dichiaratamente femminista» e in parlamento ci sono 12 ministri donne su un totale di 22 (il 54%). Certo, come sempre non è tutto oro quello che luccica e l’esercizio critico di sollevare ogni sasso e guardare bene cosa si nasconda sotto è sempre un ottimo antidoto contro il grido al miracolo. Ha fatto molto parlare il caso di una bambina svedese che, non avendo mai visto insegnanti donne, si è chiesta se lei un giorno sarebbe potuta diventarlo. Ebbene sì, quello che vediamo – o non vediamo – influenza molto il nostro modo di percepire la realtà. Se manca il modello di riferimento, che sia un professore, un meccanico o il primo ministro, è difficile che si aspiri a ricoprire il medesimo ruolo in futuro. Quanto colpisce nella vicenda è che moltissime docenti hanno cominciato a mandare alla bimba lettere e cartoline in cui le dicevano che sì, esistevano insegnanti donne e che lei avrebbe potuto fare tutto ciò che voleva. Ma ovviamente non è facile uscire da schemi che si perdono nelle sabbie del tempo.
Christina Knight, che lavora nella pubblicità da trent’anni, ha portato una serie di esempi provenienti dal mondo dell’advertising made in Usa che mostrano la storia della rappresentazione di genere dall’inizio del Novecento a oggi. E se nei primi tre decenni di quel secolo le donne venivano raffigurate con cosmetici e profumi, perché dovevano sempre essere bellissime e desiderabili, durante il periodo bellico, con gli uomini impegnati al fronte, al “gentil sesso” si richiedeva di essere forte e prestante, per ricoprire i ruoli maschili temporaneamente vuoti. Finita la guerra, l’uomo torna al lavoro e la divisa passa da essere militare a quella da ufficio del family man che, come visto in tanti film, bacia la moglie prima di uscire con la ventiquattrore in mano. E lei? Rimane a casa, fa le faccende domestiche, cucina, si prende cura dei figli… Ma, soprattutto, è sempre in ordine, sexy, di buon umore, sorridente e disponibile. È una brava donna. Negli anni Sessanta, con la rivoluzione sessuale, le cose un po’ cambiano (si veda Forte come un uomo? Il sesso del Potere), ma tra gli anni Settanta e Ottanta, con l’avvento della pornografia, le femmine continuano a subire quel male gaze che non le ha ancora abbandonate.
Si tratta dello sguardo maschile che le vuole sempre in perfetta forma fisica, in posizioni di sudditanza – spesso rappresentate come oggetti da possedere e sfoggiare – e possibilmente poco vestite. Tuttavia, pur raffigurando una cosa per come non è, poi nella realtà rischia di diventare tale. Se faccio una pubblicità dove l’uomo sculaccia la donna perché, ipotizziamo, non gli ha stirato bene le camicie, il messaggio che passa è la normalità di un simile atto. Naturalmente questo vale nei due sensi di marcia: l’uomo deve essere sempre forte, protettivo, con un buon lavoro… Una sorta di supereroe in giacca e cravatta. Il problema è che i condizionamenti insidiosi di pubblicità, film e, ora, anche dei social network, agiscono a livello inconscio: siamo sottoposti a un bombardamento di messaggi di cui non possiamo essere sempre consapevoli. Le cose iniziano a sembrarci normali senza che ci poniamo più tante domande sul fatto che, per esempio, il corpo di modelle e modelli corrisponda a quello del 5% della popolazione mondiale. E allora perché il restante 95% si deve sentire sbagliato e inadeguato? In Italia 9 ragazze su 10, dai dieci ai vent’anni, dopo aver sfogliato una rivista vorrebbero cambiare almeno una cosa del loro corpo; le bambine già a 9 anni non si piacciono e «vogliono una vagina come quella di Barbie».
Non a caso i disturbi alimentari sono i terzi più diffusi nei Paesi industrializzati, per non parlare dell’aspetto psicologico (malattie mentali, depressioni…). Tutto ciò per raggiungere un modello che, di fatto, non esiste in natura o, quando esiste, appartiene a una minoranza. Nella maggior parte dei casi i corpi perfetti che vediamo e ammiriamo, se non sono il prodotto di qualche sapiente ritocco fotografico, sono il risultato di diete ferree – e non sempre salutari – e di sfiancanti sessioni di palestra. Una delle “nuove malattie” è, infatti, anche l’eccessiva attività fisica, che sfianca e demolisce i corpi.
Oltre al danno sociale, si parla pure di un deficit economico per le aziende. Il popolo femminile è proprio il maggior fruitore degli spot e ha l’ultima parola nel momento degli acquisti, soprattutto di quelli domestici. Se le donne non si sentono rappresentate dalla pubblicità, molto facilmente non compreranno il prodotto in questione; i marchi, quindi, rischiano parecchio mettendole in secondo piano o raffigurandole in maniera distorta. Pare però che ultimamente le cose stiano un po’ cambiando, in particolare negli ultimi cinque anni, come afferma Knight. Quest’ultima, pur mostrandosi scettica, crede che non ci sarà un going back, perché molti brand ormai si stanno svegliando. Basti pensare che un marchio per vocazione molto tradizionalista come Victoria’s Secret annovera da qualche tempo tra i suoi “angeli” la modella transgender Valentina Sampaio. Altre aziende, come H&M, Nike e Gillette, hanno iniziato a fare spot orientati al femme advertising, in cui le donne non sono oggetti sessuali e gli uomini non sono costretti dentro a una virilità che corrisponde sempre e necessariamente al concetto di forza invincibile.
Resta da capire se si tratta di un marketing un po’ sornione, che cavalca le onde del #MeToo e del neonato femminismo, o se effettivamente qualcosa stia evolvendo davvero. L’unica cosa da fare è tenere gli occhi bene aperti. Certo è che le giovani donne e i giovani uomini hanno bisogno di nuovi modelli in cui potersi rispecchiare, perché ormai la tradizionale rappresentazione di genere non aderisce più alla realtà (e forse non l’ha neanche mai fatto).
Le immagini: foto scattate dall’autrice dell’articolo all’incontro Questione di sguardi, al Festival di Internazionale a Ferrara; da sinistra: Christina Knight, Livia Podestà e Giulia Zoli.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIV, n. 167, novembre 2019)