Ma quali forme assume e quali strategie adotta per mantenere una diffusione capillare? Di seguito, uno sguardo d’insieme che abbraccia e chiarisce i concetti di “product placement” e “storytelling”
Ogni volta che a un bambino viene posta la domanda: “Che vuoi fare da grande?”, l’errore compiuto, più che etico-morale, è fondamentalmente linguistico. La correzione è di quelle banali, da biscotto della fortuna: basta sostituire “fare” con “essere”. Dunque, vediamo: voglio essere ascoltato, voglio essere necessario, voglio essere seguito e voglio essere un potentissimo catalizzatore di denaro. Io, nel mio piccolo, da grande voglio essere una pubblicità.
Forse ho un tantino esagerato: sottomesso ai bisogni ontologici dell’articolo, ho forzato la mano per incantare il lettore. Mi scuso e mi correggo: da grande non sarò una pubblicità perché, senza accorgermene, mio malgrado, lo sono già. E vale anche per voi. La fabbrica dei neologismi del terzo millennio ha impacchettato un termine estremamente specifico per l’occasione, prosumer: testa di produttore, coda di consumatore. Esseri umani consumatori per definizione, in quanto cittadini del mondo reale, produttori per esigenza sociale, in quanto frequentatori del mondo virtuale: selezioniamo il meglio della nostra immagine e lo condividiamo con amici e parenti in cambio di like, visibilità, affetto. Ma questo delle logiche pubblicitarie che ruotano assieme alle eliche del Dna è il coronamento di ogni losco piano ordito dai potenti. Andiamo per gradi, iniziando dal principio. Non dico dai quadri di Henri de Toulouse-Lautrec o dall’arte occidentale commissionata dalla Chiesa; dico dal 1957: da Carosello.
Lì la pubblicità era recintata entro pochi minuti, tenuta a bada con la museruola come si farebbe con un pitbull infastidito dal caldo agostano. Poi l’esercito dei consumatori è proliferato, la domanda si è ampliata e diversificata e Carosello è dovuto soccombere alle leggi del mercato. Di Calimero, “piccolo sgorbio nero”, anzi sporco, resta solo l’inconsapevole citazione di una recente pubblicità della Dove. Il rinnovamento o è deleterio o del tutto assente. Può sembrare una cosa nuova, ma è solo lavata col detersivo giusto.
Più o meno da quel momento, saltando tutte le staccionate deontologiche con gesti atletici, la pubblicità è diventata pervasiva e ha cominciato a dilagare nel mondo delle immagini. Ha ricoperto l’intera sfera sociale, rendendosi di fatto indispensabile per ogni prodotto da diffondere. Per farlo, ha usufruito del product placement, attraverso il quale si posiziona un marchio nelle scene di un film, di un talent show, di un programma di ricette. Lo si può ritrovare in forma visuale (screen placement), verbale (script placement) e integrata (plot placement), la più potente di tutte. Potente almeno quanto il Diavolo che veste Prada. Lo spettatore è attaccato su più fronti, chiamato a usare tutti gli organi di senso; manca solo la distopia [immaginazione negativa di una ipotetica società, ndr] in 4D capace di coinvolgere l’olfatto. Eppure, quel tipo ce l’aveva profumato… l’alito. Sfruttando i potenti mezzi offertidall’ultima rivoluzione tecnologica, la pubblicità ha vissuto un periodo di evoluzione e di potenziamento: dall’essere pensata e cablata sul consumo di massa è riuscita ad adeguarsi alle specifiche necessità di ogni singolo individuo. A guardarci negli occhi tutti e uno per uno.
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Per usare un termine ottimistico, si potrebbe dire che è affascinante osservare come il potere riesca ad assorbire le istanze della protesta, digerendole e restituendole in forma di surrogati più o meno (s)gradevoli. Si pensi alla schiera di youtuber che affolla gli schermi: giovani, belli e con la rabbia giusta per gridare “adesso parlo io che c’ho la telecamera”. Non appena collezionano un buon numero di seguaci, ogni volta che sbattono i pugni sul tavolo si ricordano di mostrare l’orologio col marchio in vista. Anto’, per favore fa’ qualcosa, ché qui fa veramente troppo caldo.Quando un agitatore di popolo si trasforma in influencer cambia il modo di rapportarsi col pubblico: è un po’ meno sfigato, un po’ più in HD, ripete sempre le stesse formule di linguaggio, parla di sé mentre fa il promoter. Una delle pratiche più diffuse negli ultimi tempi è quella dell’unboxing: le aziende regalano al ragazzo un prodotto impacchettato, lui lo scarta in cameretta – davanti alla telecamera – e lo recensisce. Descrive le sue reazioni a caldo e magari mostra agli spettatori come farlo funzionare. Ti racconta la gioia di un dono ricevuto: c’è un’evoluzione psicologica degna delle migliori sceneggiature del cinema neorealista.
Un tipo di pubblicità che ha metabolizzato l’esempio statuario di Carosello e che si staglia a metà strada tra il racconto di una bravata con gli amici al bar e una televendita. Toglietemi tutto, ma non togliete il lavoro a Jill Cooper.Quella di pubblicizzare qualcosa attraverso la sua storia è forse la più efficiente delle strategie di marketing. Il termine “narrazione”, una volta entrato nel mattatoio della “brandizzazione”,viene ucciso, lavorato e reso commestibile: diventa storytelling. Quando Eataly ti vende l’aglio in carta riciclata beige chiusa con lo spago sta facendo storytelling. Quando vai a Fico Eataly World (la “fabbrica contadina” recentemente aperta a Bologna, una sorta di Westworld all’italiana) e ti sporchi le mani di terra, ti stanno raccontando anche il prequel.
Quella testa d’aglio vale tutti i dodici euro che costa perché il protagonista della tragicommedia sei tu. Si instaura così un legame intrinseco di reciproco scambio tra pubblicità e narrazione: ognuna ruba i segreti dell’altra per crescere. La più potente fucina di storie nel mondo al momento si chiama Netflix e non è un segreto che gran parte della sua produzione creativa è affidata alla raccolta dei cookie, all’a/b testing e ad altre mefistofeliche strategie. In pratica, prima della serie televisiva, vengono studiati in laboratorio i meme che diventeranno virali sui social. Se si guarda all’arte e alla letteratura come locomotrici di emozioni, viene facile credere alla teoria di Don Draper sull’amore: inventato dalle agenzie pubblicitarie per vendere calze. Viene difficile, invece, imparare a distinguere un sentimento patinato da uno sincero. Le emozioni spontanee, adesso, devono lavorare il doppio per rivelarsi autentiche. Devono declinarsi al superlativo assoluto. Non basta che siano vere, devono essere verissime. Altissime. Purissime. Vabbe’… ciao.
Le immagini: un frame della sigla di Carosello, la prima immagine suggerita da Google digitando “youtuber” e il logo di Fico Eataly World, l’esposizione recentemente aperta a Bologna.
Orazio Francesco Lella
(LucidaMente, anno XIII, n. 145, gennaio 2018)