Prima approvata, poi revocata la concessione agli stabilimenti balneari: sulle sorti dei nostri arenili regna un clima di confusione e di incertezza
Le Commissioni Bilancio e Finanze della Camera, approvando nel giugno scorso centosettantacinque emendamenti all’articolo 4 del Decreto Legge n. 70/2011, meglio noto come “Decreto sullo sviluppo”, hanno soppresso la norma che introduceva il “diritto di superficie” sulle spiagge, affidando ai privati oltre 7 mila chilometri di costa, di cui 5 mila balneabili. Si è pertanto creato un vuoto legislativo che dovrà essere colmato attraverso un’apposita legge che tenga conto delle indicazioni fornite dall’Unione europea, la quale dal 2016 auspica la privatizzazione delle spiagge attraverso aste pluriennali e rotazione dei gestori.
Il governo, in un primo momento, aveva approvato la privatizzazione degli arenili, consentendo la concessione delle spiagge ai privati per un periodo di novanta anni. Tale provvedimento, chiamato “diritto di superficie”, aveva introdotto la privatizzazione di tutto ciò che si trova sulle coste, andando a sostituire il precedente “diritto di concessione”. La serie di manovre economiche, contenute all’interno del Decreto sullo sviluppo varato da Palazzo Chigi lo scorso 15 maggio, erano state ideate per rilanciare l’economia italiana e facilitare la circolazione delle risorse.
La privatizzazione degli arenili
Case, alberghi, ristoranti, bar, palestre, negozi e piscine sulla riva, in un primo tempo, dovevano diventare proprietà di chi li ha costruiti, pagando un corrispettivo all’Agenzia del Demanio, per una durata di novanta anni. Di fatto, si aggirava la direttiva di Bruxelles che aveva imposto la rotazione della gestione delle spiagge attraverso aste pluriennali, in linea con le regole del Mercato unico europeo. Secondo il governo, l’obiettivo della norma era quello di aumentare gli investimenti nel settore turistico-balneare; secondo gli esercenti, rappresentava l’opportunità di ammortizzare le spese sostenute e dare certezza ai loro investimenti.
Sotto pressione del Quirinale e dell’Unione europea, la durata del diritto di superficie è stata poi ridotta a venti anni. Infatti, il commissario al Mercato interno dell’Ue, Michel Barnier, si era detto molto stupito che l’Italia varasse un simile provvedimento, il quale avrebbe indubbiamente posto limiti alla concorrenza e al libero mercato. Bruxelles ha subito ricordato di avere un vecchio conto in sospeso con l’Italia per le concessioni balneari, risalente al 2009, per il mancato rispetto, da parte del nostro paese, di tenere aste ogni sei anni. La direttiva Bolkestein del 2006, infatti, imponeva che tutti i servizi nello spazio comune europeo dovessero essere «liberalizzati per garantire un effettivo regime di concorrenza ed evitare posizioni monopolistiche in tanti settori strategici».
Al termine del ventennio, le concessioni demaniali marittime si sarebbero di nuovo dovute mettere sul mercato con un’asta pubblica aperta a tutti i concorrenti europei. L’esercente che si fosse poi aggiudicato l’asta avrebbe potuto decidere se mantenere gli edifici in precedenza costruiti o se abbatterli per edificarli nuovamente.
Saldi estivi: la svendita delle spiagge
Le associazioni ambientaliste e quelle per i diritti dei consumatori sono scese subito sul piede di guerra, temendo la cementificazione selvaggia dei bagnasciuga e la limitazione del diritto di accesso alle spiagge. Il turismo di qualità auspicato da Sebastiano Venneri, vicepresidente di Legambiente, infatti, non contempla solo servizi efficienti, ma anche risorse naturali e paesaggio: «Le località costiere che hanno puntato sulla qualità respingono al mittente il decreto del Governo. È la prova che quel provvedimento non fa bene al turismo e uccide il paesaggio. I sindaci che hanno firmato il nostro appello rappresentano, peraltro, alcuni dei comprensori turistici più importanti del Paese, con numeri di arrivi e presenze significativi. È la prova, quindi, che il turismo in Italia non ha bisogno di ulteriore cementificazione e deregulation, quanto piuttosto di qualità e tutela dell’ambiente».
Sulla stessa scia anche il Fai (Fondo ambiente italiano) e il Wwf, mentre secondo il Codacons il governo si è illuso «di poter rilanciare l’economia non aiutando le famiglie, ma graziando gli speculatori edilizi e cedendo quel patrimonio costiero che andrebbe invece preservato, tutelato e valorizzato».
L’Adoc, Associazione per la difesa e l’orientamento dei consumatori, ha invece avanzato un’altra proposta: «Adesso che i titolari degli stabilimenti hanno ottenuto la possibilità di investire senza essere vincolati alle scadenze, non c’è alcun motivo per un qualsiasi aumento dei prezzi a sostegno di possibili perdite d’esercizio. Al contrario, c’è spazio per un taglio deciso ai listini. Una famiglia non può spendere quasi 100 euro per una giornata al mare. Si tratta di prezzi fuori dal mercato».
Il governo corre ai ripari
In seguito alle proteste, il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo ha dichiarato: «Non si tratta affatto di una svendita. Abbiamo fatto una norma di tutela del nostro territorio per evitare che vengano a occupare le nostre spiagge imprese straniere laddove c’è una tradizione e una presenza storica degli operatori italiani». Per quanto concerne, invece, la gestione dei demani, il ministro Tremonti ha ricordato che tutto dipende dai Comuni perché «col federalismo demaniale abbiamo dato tutte queste strutture ai Comuni e alle Regioni, ma riteniamo che il governo centrale abbia ancora il diritto di concedere i terreni. Le entrate andranno ai Comuni, alle Regioni e al Ministero dell’Interno per le zone a burocrazia zero». E Michela Vittoria Brambilla, ministro del Turismo, ha rassicurato con forza che «qualunque costruzione dovesse essere mai fatta fuori dalla legge verrà abbattuta a danno di chi l’ha fatta».
L’ultima proposta
Poco prima del colpo di scena finale, che ha temporaneamente posto fine a ogni querelle, il deputato leghista Gianluca Pini ha rivisitato il provvedimento proponendo la soluzione di un «diritto di superficie della durata di cinquanta anni massimo» e «l’attivazione della procedura semplificata per l’assegnazione tramite trattativa privata del bene concesso». Per chiudere la procedura di infrazione che l’Unione Europea ha attivato nei confronti dell’Italia, e «rispondere alle esigenze per gli operatori del mercato di usufruire di un quadro normativo stabile conforme ai principi comunitari», la soluzione di Pini prevedeva un decreto legge da emanare entro la fine del 2011, per riformulare la legislazione già esistente riguardante le concessioni, delegando le competenze agli enti locali.
Lo stato confusionale regna ormai sovrano nell’attuale maggioranza di governo.
Del resto, come disse Harry Truman: «Se non puoi convincerli, confondili».
L’immagine: foto dall’alto del litorale di Tropea.
Jessica Ingrami
(LucidaMente, anno VI, n. 67, luglio 2011)