Organizzazioni non governative, associazioni di volontariato nel mondo della cooperazione internazionale e attività non riconosciute. Sono tutte uguali? Il parere di Luciano Centonze, agronomo del Cefa di Bologna, intervistato dalla nostra rivista
Le notizie di cronaca delle ultime ore, con il controverso caso del rapimento e della liberazione di Silvia Romano, rinominatasi Aisha, inviata in Kenya da Africa Milele Onlus, «Associazione di Volontariato» con sede a Fano (Pesaro-Urbino), ci inducono a compiere una riflessione su un fenomeno che ha avuto una forte crescita in questi ultimi anni: le Organizzazioni non governative (Ong), le associazioni di volontariato internazionale e altre attività non riconosciute.
Abbiamo raccolto la testimonianza di chi da decenni opera nel campo della solidarietà e dello sviluppo di territori e popolazioni disagiate a causa di povertà, guerre e condizioni all’estremo della sopravvivenza. Luciano Centonze, agronomo di 55 anni, coniugato e con due figlie, ci aiuta a capire meglio la realtà delle Ong, raccontandoci la sua esperienza lavorativa con Cefa. Il seme della solidarietà, Onlus di Bologna. Una realtà consolidata, fondata nel 1972 dal bolognese Giovanni Bersani (1914-2014), parlamentare democristiano di lungo corso, mancato nel 2014, e da padre Angelo Cavagna, il prete operaio dehoniano noto per l’attivismo sulla nonviolenza e per essere stato tra i primi promotori dell’obiezione di coscienza in Italia negli anni Settanta. Ecco la nostra intervista.
Dottor Centonze, qual è stato il motivo che l’ha portata a svolgere questa attività: il caso o la sua vocazione?
«Da sempre ho avvertito il fascino della cooperazione. Come tutti, quando si è in cerca di lavoro, ormai un bel po’ di anni fa, ho cominciato a mandare in giro il mio curriculum. Lo inoltrai anche a Cefa, che ha sede qui a Bologna. Diciamo che è stato un po’ per fortuna, ma un po’ anche perché il tipo di attività svolta da questa organizzazione rientrava nelle mie corde. Mettere la mia competenza a disposizione dei paesi del Sud del mondo è un’attività che mi gratifica molto. Quindi, sono stato fortunato a coniugare il bisogno di lavoro con una mia passione».
La sua prima missione.
«Risale all’aprile del 1997. Partenza per la Bosnia-Erzegovina, dove rimasi per cinque anni. Era un Paese appena uscito da una guerra durissima e drammatica e si doveva cominciare a ricostruire dopo la distruzione, che aveva atterrito la popolazione e peggiorato tutte le sue condizioni di vita. In quegli anni ho collaborato, come tecnico, a un progetto che mirava a rilanciare l’agricoltura e l’economia a essa legata».
Adesso, invece?
«Dopo aver ricoperto diversi incarichi, adesso coordino dall’Italia le attività in Kenya, Mozambico e Somalia: attualmente mi occupo di progetti soprattutto di sviluppo agricolo».
Qual è lo scopo di tali progetti?
«Ce ne sono due. Uno di tipo immediato, ed è quello di creare le condizioni per praticare l’agricoltura in territori ostili per la loro natura fisica (aridità, scarsezza di risorse idriche), la quasi inesistenza di strumenti e attrezzature appropriate, una tecnologia bassissima. Poi c’è un altro scopo, quello di più lungo termine. Coinvolgere intere popolazioni e aiutarle a migliorare nella gestione, anche associativa, dell’attività agricola. Per esempio, coinvolgiamo, interi villaggi a partecipare alla coltivazione di colture di sostentamento, in maniera che esse stesse possano provvedere a fornire alimenti di base e a sviluppare una microeconomia che, attraverso l’accesso al mercato, ponga le basi per un incremento del reddito familiare, con una sensibile incidenza anche nella creazione di occupazione».
Un po’ come dire che insegnare a pescare a un uomo vale molto di più che dargli un pesce…
«Esattamente! La filosofia è proprio questa. Sintetizzandola in pochi concetti-chiave, la vocazione di Cefa Onlus risiede nel creare modelli di sviluppo sostenibile e mettere in atto iniziative che assicurino la crescita di un territorio, stimolando la partecipazione delle popolazioni locali, affinché siano protagoniste del loro sviluppo. Sicché ogni persona, in ogni parte del mondo, diventi soggetto attivo di democrazia e di pace».
Ha parlato di aree geografiche in cui opera la sua organizzazione, difficili non solo per le condizioni di esiguità economica e sociale, ma spesso martoriate da guerre, quindi pericolose e insicure. Prova paura, quando si reca in quei posti per seguire da vicino i progetti di cui è responsabile?
«Un po’ di preoccupazione c’è sempre. Bisogna mettersi nell’ottica che un uomo occidentale nelle zone scarsamente sviluppate può essere visto come “ricco e potente” dalle popolazioni del luogo. Quindi, potenzialmente, potrebbero esserci degli incidenti di percorso. Anche se io, personalmente, e per quel che riguarda la mia esperienza, non ho mai avuto occasione di temere alcunché».
Ecco, per venire agli attualissimi fatti di cronaca, che riguardano la vicenda di Silvia Romano, mi piacerebbe conoscere il suo personale punto di vista, da addetto ai lavori, sul tema della sicurezza di chi opera in territori con alto tasso di pericolosità.
«Beh… la pericolosità è un elemento presente in tutte quelle realtà dove opera una Ong. Intanto, sono territori dove talvolta c’è un deficit di democrazia dovuto a diversi fattori: povertà; instabilità politica; guerre fra bande diverse per la detenzione del potere su dei territori; fondamentalismo islamico. Giusto per citare qualche elemento di una realtà che conosco bene, la Somalia, appunto! E questi sono elementi oggettivi, insiti nel territorio. Poi ci possono essere degli elementi di carattere soggettivo, dovuti, cioè, alla struttura, alla capacità di organizzazione della Ong (o della associazione) e ai protocolli di sicurezza da essa adottati».
Ci spieghi meglio…
«Per esempio, quando si intraprende un percorso per realizzare un progetto, è necessario imbastire un insieme di relazioni con i diversi attori locali, istituzionali e della società civile, oltre che confrontarsi con le sedi locali dell’Aics (Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo) e le ambasciate italiane nei paesi in cui si vuole operare. Questo percorso di condivisione degli obiettivi dei progetti, che vogliono rispondere a bisogni identificati congiuntamente e la capacità di creare un rapporto di fiducia reciproca con le autorità locali, fa sì che sia manifesto l’interesse concreto che il progetto si realizzi per il bene delle popolazioni “beneficiarie”. Se il percorso è costruito correttamente, si riducono al minimo (anche se non sono del tutto esclusi) i rischi di intoppi o spiacevoli incidenti…».
Quindi, molto dipende dalla capacità di intessere rapporti di natura diplomatica. E le misure di sicurezza cui si riferiva?
«Quelle sono necessarie per i motivi che dicevo prima. C’è bisogno, innanzitutto, di formare i cooperanti e i volontari che si inviano a operare sul campo. Quando mi riferivo alla struttura di una Ong, intendevo anche alla sua capacità di preparare adeguatamente il proprio personale, formarlo a seguire delle misure idonee per scongiurare situazioni critiche. Quanto più una organizzazione è solida e ben strutturata, tanto più può rispondere a queste necessità. Io sono da sempre favorevole al coinvolgimento dei giovani, alla sensibilizzazione dei nostri ragazzi verso la cooperazione internazionale, ma essi devono essere adeguatamente formati e posti in condizioni di maggior sicurezza possibile!».
In sostanza ci sta dicendo che non tutti i soggetti che si occupano di cooperazione internazionale sono adeguatamente attrezzati a svolgere l’opera per cui sono nati? Tanto più se mandano allo sbaraglio ragazze inesperte e non adeguatamente protette?
«Sì, se vogliamo riassumere il concetto in una battuta…».
A quando la prossima missione in Somalia?
«Non appena riprendono i voli, bloccati per il coronavirus!».
Le immagini sono tratte dai siti di Cefa e di Africa Milele.
Nicola Marzo
(LucidaMente, anno XV, n. 173, maggio 2020)