Litàlia. Racconto popolare postrisorgimentale in due tempi e un post scriptum è un’opera di Francesco Cento, di prossima uscita presso le nostre edizioni (collana Nerissima). Quasi come un romanzo storico, il libro narra le speranze e le delusioni della povera gente del Mezzogiorno d’Italia, nel 1860, all’arrivo di Garibaldi. In particolare di quella calabrese, con la piccola, “immaginaria”, comunità di Dericina (Radicena-Taurianova), che si troverà trascinata nei gorghi della Storia, che, spietatamente, poco si cura delle storie individuali. Così il trambusto “rivoluzionario” degli avvenimenti si rivela un terribile inganno ai danni degli umili e degli innocenti, le cui vicende vengono strozzate in un accartocciarsi di sventure, eterno contorno delle piccole esistenze umane. Attraverso uno stile particolare, nel quale la voce del narratore esterno diventa coro di un intero, martoriato popolo, l’autore proietta inquietanti interrogativi, supportati da una attenta e colta ricerca storiografica e da una umanissima sensibilità verso le disgrazie dei ca-funi.
Offriamo come “assaggio” al lettore lo straordinario, suggestivo incipit del libro, caratterizzato da una prosa soffice e colta, e un brano in cui i poveracci immaginano si realizzi il loro sogno di giustizia sociale.
Non era luogo, quello, dove la poesia fosse mai esistita.
Si pensava.
Data la natura, ognora selvatica, e il genere umano ridotto allo stato brado dall’ignoranza cui era stato costretto sin dalla memoria che di quei luoghi e di quelle terre ne ebbe qualcheduno che si dette pensiero di appuntarne la storia, su libelli pubblicati altrove, in maniera che, qualora vi fosse stato qualcun altro in grado di leggere, avrebbe faticato non poco a trovarli. E se pure quelle terre avessero dato i natali a illustri uomini e valenti matriarche, nessuna notizia di tali menti era rimasta nel popolino minuto che, anzi, si ritenne depositario solo delle sventure della natura, delle vessazioni dei potenti, della malvagità della superstizione che teneva ottenebrate le menti dei molti impedendo che la conoscenza delle cose avesse una puntuale e giusta ricaduta nella vita quotidiana, per migliorarne la qualità e alleviare la rovinosa specie della natura di quei luoghi.
Vita rude, tremenda per i nativi, pittoresca e passionale per gli avventurosi foresti che qui vi trovavano chissà quale antico luogo sotto forma di pietre, sterpi e qualche colonna solitaria ritenuta da sempre uno strumento per stabilire antichi confini terrieri e basta. Di terra e di vacche, di pecore e di muli, non altro. E se poesia poteva esserci si trovava nelle distese sterminate di ulivi, nelle sere d’estate dopo la fienagione, quando la stanchezza dei molti arrivava a un compromesso con la beatitudine dei pochi che si vedevano i granai pieni di grazia di Dio e le ceramedde a paru cantavano come rosignoli e gli uomini e le donne ballavano nella sera incipiente; oppure quando le pariglia di buoi aravano nel primo autunno. Oppure nelle solennità della Pasqua e la fine della quaresima portava felicità di soppressate, magnanimità di formaggi e ricotta, boccòlari e lardo, soffritto e dolci di cannella e cioccolato. Se poesia c’era, ora si presentava sotto forma di serenata, con molti strumenti […].
Garibaldi avrebbe annuito col capo, seduto al centro della piazza, con la spada, il poncho, la camicia rossa e il cappello tondo.
Poi sarebbe toccato ai galantuomini, a quelli che avevano approfittato della situazione di tanti e tanti anni e che si erano arricchiti rosicando, tomolata dopo tomolata, la terra del demanio fino a impedire perfino di raccogliere le castagne o la legna per il fuoco.
“Voi” avrebbe detto Garibaldi “adesso dovrete restituire tutte le terre che avete preso con l’inganno e col sopruso”.
Bixio si sarebbe fatto avanti e, leggendo ad alta voce da un elenco fornito dagli stessi contadini lì presenti, avrebbe chiamato:
“Iniziamo da don Agostino De’ Schiavo”.
Questi avrebbe fatto un passo avanti nella fila e avrebbe atteso in silenzio.
“Voi avete preso possesso di terra del demanio senza averne diritto”.
“Ma io non…”.
“Zitto,” l’avrebbe redarguito Garibaldi “questa è la voce del popolo!”.
“A noi risulta che avete preso di forza la terra libera che per regio decreto apparteneva alla comunità: contrada Chiusa, contrada Tallarico, contrada Savarazzo, contrada Bellè, contrada Limina. Da oggi in poi tutte queste terre saranno nuovamente a disposizione dei reietti”.
E così, galantuomo dopo galantuomo, la povera gente avrebbe potuto riprendere a usufruire delle terre.
(da Francesco Cento, Litàlia. Racconto popolare postrisorgimentale in due tempi e un post scriptum, Introduzione di Rino Tripodi, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: la copertina de Litàlia di Francesco Cento.
Alessandra Cavazzi
(LucidaMente, anno III, n. 29, maggio 2008)