Un viaggio nell’Ade attraverso alcuni brani scelti dal VI libro dell’“Eneide” virgiliana
Cosa dire per introdurre l’aldilà di Virgilio (70-19 a.C.), il mistero di Sibilla e del ramo d’oro? Con il ramo d’oro entri nella bocca aperta della terra, verso il cielo sotterraneo, verso il fondo senza fondo di tenebra e vuoto, sotto la luce opaca di un sole nero; superi l’oceano d’ombre, foglie perdute sulla spiaggia, superi l’Angelus Novus che lascia passare chi non si volta indietro; raggiungi il Padre illuminato dal fuoco delle vite future, Anchise, che ti indica la porta d’avorio dei sogni illusori.
Una mente interiore, nascosta, si espande per l’universo e, se gli occhi si aprissero anche per un solo attimo, vedrebbero ogni cosa per quella che è, una lenta goccia di pioggia che scende silenziosa sul vetro: queste mi sembrano alcune delle verità poetiche e “archetipiche” per inquadrare il cammino virgiliano.
Ma ecco i frammenti dell’Eneide scelti dall’episodio del viaggio di Enea nell’Ade.
e già tocca le spiagge euboiche di Cuma
(Aen., VI, 2)
Enea raggiunge per la prima volta l’antiquam matrem, l’Esperia, la Terra del Tramonto predetta da tanti oracoli. I giovani appena sbarcati gioiscono nell’esplorare una terra vergine, cercano le scintille nelle vene della selce (9-10); ma Enea (come Ulisse quando cerca Tiresia nella buia terra dei Cimmeri) deve trovare il suo passato, suo padre, per lanciarsi nel futuro. Se si avvicina ai boschi di Trivia, la Diana sotterranea, lo fa per trovare l’antrum immane della Sibilla (11), la guida all’Ade (109).
DedaloDedalo, si tramanda, lasciando le terre minoiche
tentò d’affidarsi al cielo con rapide ali
e volando alle gelide Orse, nel nuovo cammino
finalmente si posò lieve sulla cima di Calcide
(Aen., VI, 14-17)
Dopo il Labirinto, l’inextricabilis error, Dedalo costruisce templa immania a Cuma, che ha raggiunto seguendo il nord, la costellazione dell’Orsa: è l’uomo dell’esilio eterno (da Atene a Creta, poi in Esperia), ma anche l’uomo delle cose impossibili (del filo che salva Teseo, del volo alato), l’artista che incide nel tempio miti antichissimi, Dedalus joyciano del tempo dei tempi, il padre la cui mano cade nell’impossibilità di parlare del figlio morto: bis conatus erat casus effingere in auro / bis patriae cecidere manus (32-33).
Sibillasul fianco dell’enorme roccia d’Eubea è scavata
la grotta a cui portano cento bocche, cento porte
dove corrono uguali voci, oracoli di Sibilla;
giunti alla soglia, lei dice: “è l’ora
di chiedere i fati… il dio! ecco il dio!”.
(Aen., VI, 42-46)
Sibilla, di solito enigma indecifrabile (così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla, Par., XXXIII), stavolta vede chiaro: lotte terribili, il Tevere grondante di sangue, la salvezza paradossale che viene dai greci, gli antichi nemici (83-97). La donna è da sempre senhal di morte (anche la Sibilla petroniana vuole morire: apothanein thélo, Sat., 48) e di vita (anche Molly Bloom è una sacerdotessa everliving, quando nella chiusa dell’Ulysses di Joyce dice sì alla vita). Nel petto gonfio dell’excessus mentis, quando ormai non ha neanche più una voce umana (49-50), Sibilla svela il fondo archetipico ancestrale che non ha più confini di spazio e tempo, naviga su un mare primordiale che da Cuma arriva alle sacerdotesse celtiche, invasate di fronte alle squadrate piramidi nere della Giants’ Causeway.
Il ramo d’orosi nasconde all’ombra di un albero
un ramo, d’oro nelle foglie e nel lento vimine,
sacro a Proserpina; la foresta lo copre
e il buio delle terre oscure lo racchiude
(Aen., VI, 136-139)
Il ramo d’oro, che brilla nella brezza leggera come scintillante vischio invernale (205-209), si trova di certo a Nemi, in uno spazio sacro dedicato a Diana Aricina – è sacro anche lui da sempre, dai libri iniziatici orfeo-pitagorici, dalle formule dei druidi celtici del nord. Non appartiene né alla terra né al cielo, si nasconde sotto un eternal Oak ed è l’unico dono possibile per Proserpina (142-144), che richiede però un ulteriore prezzo di sangue (la morte del trombettiere Miseno, 149-151). Enea deve trovarlo e coglierlo spontaneamente se, sulle tracce di Orfeo, Polluce, Ercole, Teseo, vuole attraversare la ianua atri Ditis (127) e giungere fino ad cospectum cari genitoris (108).
Case vuote di Diteandavano soli per l’ombra della notte oscura,
per i vuoti palazzi di Dite e i suoi regni abbandonati
(Aen., VI, 268-269)
La morte con il suo nulla suggerisce l’inutilità di tutto, ma anche il nulla, direbbe Neher, ha le sue vegetazioni, le sue radici sommerse e sotterranee – quando Enea all’alba del primo sole s’inabissa insieme a Sibilla nella scrupea, tra il lago nero d’Averno e boschi di tenebre (237-255), Virgilio stesso chiede il permesso divino di svelare i segreti di questo regno vuoto. Siamo ormai dentro un’atmosfera di sogno, di luce asfittica, il buio ha quasi cancellato il colore delle cose (272): no light, but rather darkness visible (John Milton, Paradise lost). Bisogna vincere la paura dell’inesistente: Sibilla ferma Enea che allunga la spada perché sa che i vana somnia non esistono se non nella sua mente (293-294), i mostri del bardo nel Libro tibetano dei morti, le cava sub imagine formae.
Fogliecome foglie strappate alle selve cedono in molte
al primo freddo d’autunno, o uccelli che a terra
si rifugiano dal mare alto, quando il tempo gelido
li allontana oltre le onde in cerca di terre calde
(Aen., VI, 309-312)
Dopo il grande olmo opaco che forse è casa dei vacua somnia, dei sogni illusori, attaccati alle foglie sulle sue vecchie braccia di rami (282-284), ecco finalmente il fiume Acheronte. Come foglie […] così le anime pregavano di attraversare il fiume e spasmodiche tendevano le mani alla riva opposta (313-315) – le foglie e gli uccelli continuano a volare lontano, da Omero e dall’elegia greca, fino a Ungaretti: Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie.
Sono le foglie della nebbia all’alba (Odissea, IX).
non sperare che i fati divini possano mutare pregando
(Aen., VI, 376)
Queste le tremende parole di Sibilla all’ombra disperata di Palinuro, il quale, gettato suo malgrado dalla poppa in mezzo ai flutti (339), è insepolto nelle sue spoglie mortali: ora, come per Manfredi, le bagna la pioggia e muove il vento (Purg., III). Il gubernator ha agito e pensato da uomo di mare, più preoccupato per la nave spoliata armis che per la sua incolumità dentro hibernas per immensa aequora noctes (333-335). La sua vana preghiera a Enea e Sibilla è ribellione al Fato, fato che è Sfinge tra noi e il caos (Giorgio de Santillana). Anche Dante è turbato da questa risposta di Sibilla, dalla negazione che decreto del cielo orazion pieghi (Purg., VI). Le successive parole finali di conforto dell’oracolo non basteranno a consolarlo, nelle vene già impietriva furia / crescente d’ultimo e più arcano sonno (Giuseppe Ungaretti, La Terra Promessa).
Carontequesta è la terra del buio, dell’incoscienza, del torpore della notte;
impossibile portare corpi vivi sulla barca dello Stige
(Aen., VI, 390-391)
Sono parole di Caronte, il vector dell’amnica stipe data (Ovidio, Metamorfosi, VI), il vecchio bianco per antico pelo […] che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote (Inf., III) – traghettatore ma anche custode dell’Ade, con Cerbero che latratu regna trifauci personat (418). Del silenzioso Charun, demone etrusco dell’Averno, ha ben poco; le sue proteste violente, scotto di errori passati (392-397), sono fermate solo dal valore iniziatico del ramo d’oro che Sibilla gli mostra, placando il suo cuore (405-410) – il Virgilio guida di Dante utilizza l’esorcismo vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare (Inf., III). Così Enea trova posto con Sibilla tra le vele nere del traghetto, che geme sotto il loro peso (413).
Vocisenza fine s’udivano voci e un vasto vagito,
anime di infanti che gemono sul primo limine,
e, appena offerti alla vita, il nero giorno rapì dal seno
materno e inghiottì prima nella notte senza fine
(Aen., VI, 426-429)
Sono gli stessi sospiri profondi dei bimbi non battezzati del Limbo dantesco, sospiri che l’aura etterna facevan tremare (Inf., IV). Ricorda un celebre episodio de L’uomo che ride di Victor Hugo: il vagito notturno di Dea neonata, che geme prima di essere salvata da Gwynplaine fanciullo, quando la strappa dal filo della morte che la schiaccia sul seno di marmo della madre, già morta assiderata nella neve (V. Hugo, L’homme qui rit, III, 2). Ma le anime di questi bambini sono già nel fondo dell’infinito, e nessuna madre può più vederle in salvo, per sempre.
Ultime parole a Didonema, trascinandomi con il loro comando,
obblighi voluti da dèi mi costringono ad andare
per le ombre, per terre desolate, per la notte profonda
(Aen., VI, 461-463)
Entriamo nell’atmosfera di penombra dei lugentes campi, […] hic quos durus amor crudeli tabe peredit secreti celant calles (442-443). Tra i mirti sacri a Venere, Didone è la regina dei boschi del pianto (450-451), in lei ancora vivit sub pectore vulnus (IV), ma la ferita è in cancrena, il suo volto non si muove più di una dura selce o di marmoree rocce marpesie (471). Anche in questo sfondo irreale le scuse di Enea, le ultime concesse a lui dal fato (466), sono inutili. La Phoenissa, ora fixos oculos aversa (come lui nell’ultimo incontro a Cartagine) alla fine gli volta le spalle e corre tra le ombre degli alberi, fino a Sicheo che l’attende e la consola (469-474): ciò che resta delle veteris vestigia flammae (IV), i segni dell’antica fiamma.
Il Tartarosi alza verso l’alto la torre di ferro,
e Tisifone siede avvolta da vesti di sangue
e senza riposo presidia l’ingresso giorno e notte
(Aen., VI, 554-556)
Il Tartaro segue l’ombra di Deifobo, il corpo indifeso vittima di tutto l’orrore di cui l’uomo è capace (494-497) – il nome della sposa che l’ha consegnato alla furia assassina, la ledea Elena, non viene mai pronunziato; su intimazione di Sibilla Deifobo risprofonda nelle tenebre (545), ma le sue mutilazioni sono anticipazioni dei gemiti e degli stridori metallici del Tartaro (557-558). La furia Tisifone, la prima delle Dirae vendicatrici, custodisce l’immensa porta metallica della città (551) che ha per giudice Cnosio Radamante, fratello di Minosse (566). Dietro il “niente” dell’immenso mondo degli spiriti c’è ancora la rabbia della violenza purificatrice, unico contrappeso di giustizia divina rispetto all’onnipotenza del male sulla terra (Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, IV).
Campi Elisiqui aria dilatata veste le terre di luce tenue –
puoi conoscere un tuo sole, tue stelle
(Aen., VI, 640-641)
Enea attacca il ramo d’oro alle soglie della porta dei Campi Elisi (636). Come dice Museo, i beati abitano prati e rive nulli domus certa (673-675), spesso sui memores alios fecere merendo (664), verso caro ai padri della Chiesa. Anche un sole interno brilla sull’Eridano: beneath us was the sun, black but shining (W. Blake, The Marriage of Heaven and Hell).
Il padre Anchisetre volte, come fievoli venti o un sonno fugace
perse l’ombra abbracciandola a vuoto
(Aen., VI, 701-702)
Per Anchise Enea e Sibilla hanno solcato i grandi fiumi dell’Erebo (671). Enea sa che è la radice, la piota che può dirgli il senso del cercare l’antiquam matrem; è il suo specchio, con Iulo l’unico vero testimone della sua storia: el incesante espejo lo atestigua (J. L. Borges, La cifra).
Antenaticiascuno patisce i suoi Mani
(Aen., VI, 743)
Anchise spiega come il passato non sia solo radice che ci nutre e sostiene, ma anche catena di antiche colpe, che per discendenza ci appartengono; il lontano e glorioso avvenire della catena delle generazioni è anche fardello di danni accumulati dal lato oscuro del patrimonio archetipico, collettivo o individuale (A. Neher, L’exil de la parole).
Il fiume dell’obliole anime che il fato conduce
a nuovi corpi, bevono sull’onda del fiume Lete
acque incuranti e lunghi oblii
(Aen., VI, 713-715)
Prima di rinascere ciascuno si purifica, chi con leggeri venti, chi sub gurgite vasto d’acqua (741-748) che toglie altrui memoria del peccato (Purg., XXVIII) – Dante nel paradiso terrestre aggiunge un fiume del ricordo, l’Eunoè, per ravvivare la virtù tramortita (Purg., XXXIII), per volgere la nous al bene. Il salmo L accenna: asperges me hysopo et mundabor / lavabis me et super nivem dealbabor. E Marguerite Yourcenar vede tra le rocce acque fresche di sorgente, chiuse da calde pareti di antichissima pietra primordiale, bruit de la / source dans / les rochers / sur les parois de / pierre (Les Trente-trois Noms de Dieu). Lete è anch’esso figura del principio cosmico che muove cielo e terra (724-728).
Missione di Romaperdonare i sottomessi, estinguere i ribelli
(Aen., VI, 853)
Tutto rimane come al principio della creazione (2 Pt, 3), ma la gioia di ciascuno è sempre proiettata nel futuro: e vei jausen lo joi qu’esper, denan (Purg., XXVI). Quella di Anchise è proiettata nella missione imperiale di Roma, la gloria augustea che dopo neanche un secolo le parole di un caledone, Calgaco, avrebbero messo in dubbio: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (Tacito, Agricola, XXX), dove fanno il deserto, dicono di aver portato la pace.
Canto funebreversate gigli a piene mani,
e io spargerò fiori purpurei
(Aen., VI, 883-884)
Il dolore elegiaco per il duro fato di Marcello, nipote di Augusto, una notte buia di ombre vola sul suo capo (866). I gigli ricordano la brevità della sua vita, gli altri fiori funebri sono rossi come quelli che Enea aveva versato sulla tomba del padre poco tempo prima (V). I doni sono offerti invano (885-886).
Le porte del SonnoSono due le porte del Sonno, una forse di corno,
che consente veloce uscita a ombre vere,
l’altra scintillante di puro avorio,
e da lì i Mani mandano al cielo i sogni illusori
(Aen., VI, 893-896)
Anchise fa uscire il figlio e Sibilla dall’ultima porta, affinché Enea non abbia ricordo del viaggio, se non vaghe sensazioni confuse. Ma nessun viaggiatore dell’aldilà riesce a trattenere le sue visioni, perché appressando sé al suo disire / nostro intelletto si profonda tanto / che dietro la memoria non può ire (Par., I). E poi siamo ancora a metà della notte, non è possibile uscire con i sogni premonitori dell’alba. E quindi uscimmo a riveder le stelle (Inf., XXXIV).
L’immagine: Virgilio tra Clio e Melpomene (mosaico del III secolo, Museo nazionale del Bardo, Tunisi).
Guido Monte
(LucidaMente, anno II, n. 24, dicembre 2007)