Nella fosca “Medea” del filosofo latino una strana profezia del tempo presente
«Fu un’età d’innocenza, senza inganni, quella dei nostri padri. Ognuno radeva pigramente la propria costa o invecchiava nel proprio campo, ricco del poco, non conoscendo altri beni che quelli del suolo natio. […] Ora il mare si è arreso e subisce ogni legge: […] qualunque scafo lo attraversa. Non ci sono più confini, le città hanno posto le mura in nuove terre, niente è rimasto al posto di prima, tutto il mondo è una strada. L’indiano si disseta al gelido Arasse, i Persiani bevono l’Elba e il Reno. Giorno verrà, alla fine dei tempi, che l’Oceano scioglierà le catene del mondo, si aprirà la terra, Teti svelerà nuovi mondi e non ci sarà più un’ultima Tule».
(da Medea, traduzione di Alfonso Traina, Rizzoli, 2001)
Lucius Annaeus Seneca
Certamente è sempre una forzatura attribuire agli uomini del passato intuizioni, presagi, profezie, relative al nostro presente. Anche perché si rischia di arrivare a una sorta di “effetto Nostradamus”, in base al quale è impossibile intendere se sia stato l’astrologo francese a prevedere il futuro o… siamo noi ad adattare le sue Centurie astrologiche al nostro presente.
Tuttavia, l'”attualizzazione” è sempre un gioco affascinante, un ludus intellettualistico, ma forse verosimile. Se, probabilmente, i grandi delle epoche trascorse non possedevano la sfera per prevedere il futuro, è pur vero che noi, interpretandoli, “vediamo” meglio i nostri tempi.
Fra mito dell’età dell’oro… – Il luogo comune dei “bei tempi andati” è sempre stato presente in tutte le epoche e tra tutti gli uomini. Che sia legato al fatto che, in maggioranza, specie col passare degli anni, ricordiamo l’infanzia come perfetta età della gioia e dell’innocenza (ma è realmente così?) – e, quindi, trasferiamo questa esperienza individuale sul piano universale e storico, inserendola in una sorta di immaginario collettivo -, è un dubbio che lasciamo volentieri agli psicanalisti. Fatto sta che il mito di un’età dell’oro, costituita da semplicità, sicurezza, quiete e prosperità per tutti gli uomini («fu un’età d’innocenza, senza inganni, quella dei nostri padri. Ognuno radeva pigramente la propria costa o invecchiava nel proprio campo, ricco del poco»), è presente in tutte le culture. E con questa favolosa rievocazione abbiamo fatto iniziare il brano che abbiamo scelto di estrarre dalla Medea di Seneca.
…e reali timori delle trasformazioni – La paura degli stravolgimenti, degli impetuosi cambiamenti, degli “stranieri” e del conseguente mescolarsi dei popoli sulla faccia della Terra, in una parola, del crollo del vecchio “ordine”, sono anch’essi dei refrain abbastanza consueti. Quello che impressiona nel filosofo e tragediografo latino sono alcune frasi che sembrano davvero descrivere l’attuale realtà della “globalizzazione”, certo ineluttabile, ma discutibile soprattutto per le modalità con le quali sta attuandosi. Così, abbiamo la profezia della facilità degli spostamenti e dei trasporti («ora il mare si è arreso e subisce ogni legge: […] qualunque scafo lo attraversa. Non ci sono più confini, […] tutto il mondo è una strada»), dello scambio, senza alcun limite, di merci “esotiche” (mentre in passato l’uomo «non conosceva altri beni che quelli del suolo natio»), delle invasioni («le città hanno posto le mura in nuove terre»), delle migrazioni di massa (»l’indiano si disseta al gelido Arasse, i Persiani bevono l’Elba e il Reno»), fino alla previsione dell’esplorazione dello spazio extraterrestre («giorno verrà, alla fine dei tempi, che l’Oceano scioglierà le catene del mondo, si aprirà la terra, Teti svelerà nuovi mondi e non ci sarà più un’ultima Tule»). Verso tutto ciò Seneca prova un giustificato terrore e la sua condanna è esplicita. E, forse, condivisibile.
Giasone e l’orribile donna/madre Medea – La colpa di tale stravolgimento? È di Giasone, il temerario che, guidando la spedizione degli Argonauti, ha violato le vecchie leggi e gli antichi, rasserenanti confini, aprendo la strada ai mali della civiltà: il continuo movimento e frenesia, il commercio, l’ambizione sconfinata. A completare il quadro infausto delineato dallo scrittore latino, occorre aggiungere che il brano è tratto dalla più cupa tragedia del più cupo tragediografo latino, ispirata da uno dei miti più cupi e impressionanti, in quanto, come buona parte di essi, si riferisce ad ancestrali terrori. In questo caso, quelli della donna pazza di amore e della madre infanticida. La storia è nota. E già trattata da Euripide in un’altra omonima, notissima tragedia. Medea – che, per amore di Giasone, ha lasciato la patria, tradito il padre Eèta, eliminato il fratello Absirto e fatto uccidere Pèlia, il prepotente zio di Giasone – si vendica del marito che l’ha abbandonata per un’altra donna, assassinando Creusa, la nuova compagna dell’eroe, e il suo nuovo suocero Creonte, fino a pervenire al più atroce e imperdonabile dei delitti: l’uccisione dei propri stessi figli. Col suo percorso disseminato di cieca, incontrollata, vendetta, violenza e sangue, ella diviene al contempo vittima e incarnazione del Male, icona della negatività femminile. Senza voler fare, alla Bruno Vespa, gli sciacalli degli orrori della cronaca familiare quotidiana, dobbiamo rilevare anche qui uno sconcertante accostamento coi tanti episodi di madri assassine che hanno turbato l’Italia.
Il testo originale – Infine, per i latinisti – se ancora ne esistono, visti i mala tempora che attraversa la cultura italiana, dominata dall’ignoranza e dalla volgarità televisiva (non facciamo distinzione tra Rai, Mediaset e soci) – riportiamo il testo originale della nostra citazione, offrendo loro libertà di (re)interpretazione:
«Candida nostri saecula patres
videre procul fraude remota.
Sua quisque piger litora tangens
patrioque senex factus in arvo,
parvo dives, nisi quas tulerat
natale solum, non norat opes.
[…]
Nunc iam cessit pontus et omnes
patitur leges
[…]
quaelibet altum cumba pererrat;
terminus omnis motus et urbes
muros terra posuere nova,
nil qua fuerat sede reliquit
pervius orbis:
Indus gelidum potat Araxen,
Albin Persae Rhenumque bibunt –
venient annis saecula seris,
quibus Oceanus vincula rerum
laxet et ingens pateat tellus
Tethysque novos detegat orbes
nec sit terris ultima Thule».
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno I, n. 9, settembre 2006)
Gentile Dott. Tripodi,
Struggente il brano di Seneca da Lei scelto e, senza illecebre, magistrale il Suo commento, in cui fra l’altro propone una sorta di parallelismo con la storia contemporanea. Ma proprio questo parallelismo porta alla conclusione che la storia, in qualche modo, si ripete e che sempre le stesse sono le paure dell’uomo di fronte al nuovo e allo straniero. Nuovo e straniero che, da sempre oserei dire, si sono affermati con forme di brutalità, attiva o passiva che sia. Vittime e carnefici. Tuttavia inviterei a non creare il “volto del nemico”, che sembra così indispensabile alla nostra esistenza. Nemmeno mi sentirei di esaltare orti e campicelli, se non come utopia. In realtà ogni forma di chiusura ottunde l’animo e la mente, crea a sua volta isolamenti e vittime e nessun popolo, inoltre, è mai rimasto nei propri confini. La stessa Inghilterra è nata da immigrati:Sassoni, Frisoni ecc. Mi dirà che sono fatalista. In certo senso lo sono, con la clausola che certe dinamiche inevitabili debbano essere gestite al meglio, con razionalità e positività. Scusi queste riflessioni sconnesse….
Grazie per il pacato intervento.
Ma anche “nihil novum sub sole” rischia di essere altrettanto luogo comune dei “bei tempi andati” e del “nuovo che avanza”.
Occorre distinguere il meglio e il peggio.