L’emergenza pandemia ha stravolto l’insegnamento/apprendimento, ma soprattutto sta creando enormi problemi psicologici agli allievi. Tra i più gravi, la fragilità della protezione della propria intimità e privacy a causa dell’inglobamento dello spazio di casa in quello scolastico e il rischio del cyberbullismo
Una giovane studentessa ci ha scritto per esprimere il proprio disagio per la situazione didattica che gli allievi italiani stanno vivendo. Si tratta di riflessioni e considerazioni talmente sincere, profonde e interessanti, che, sebbene un po’ lunghe, pubblichiamo con estremo piacere.
L’emergenza coronavirus cambia il modo di “fare scuola”, didattica a distanza in primis come metodo di insegnamento che però non può sostituirsi alla compresenza in classe. Quasi tutti gli articoli dei mass media si occupano degli aspetti correlati al fondamentale e insostituibile ausilio che la tecnologia sta offrendo. Nessuno che invece pensi di valutare l’impatto psicologico sui ragazzi, non solo degli aspetti isolativi degli stessi dal resto del mondo, ma dell’utilizzo di una tecnologia che non è possibile gestire appieno e che lascia spazi che in presenza erano controllati.
Ragazzi con problemi di approccio alla webcam e di visualizzazione allo schermo. Genitori attenti che hanno cercato nel tempo di aiutare i ragazzi a non isolarsi nei social, nelle loro camerette, ad utilizzare con regole il telefono cellulare, oggi hanno contro la scuola che pare quasi stia cercando di gettare in tutti i modi i ragazzi nella sindrome degli hikikomori, con il rischio molto pesante che la telematica divenga un fattore cronico, inguaribile, devastando la vita dell’interessato. Rimpiangiamo Jean Piaget e la sua insistenza sui ritmi personali di sviluppo e sui differenti ritmi di maturazione di ciascun individuo. Posizione prematuramente cassata da un vuoto fondato su un presuntuoso intellettualismo, generato dalla consapevolezza dei tanti stimoli apprenditivi che l’attuale società cibernetica e i mass media hanno reso possibili, ma che ci stanno uccidendo, giorno dopo giorno. Così ho deciso di condividere con il maggior numero di persone possibile una tematica fondamentale che troppo spesso non emerge per vergogna, imbarazzo, timore e perché ci si è ormai abituati a sentirci inadatti alle situazioni.
Nessun argomento è più attuale del coronavirus; da mesi siamo immersi nelle notizie che riguardano la pandemia in corso. Per questa ragione è diventato nell’ultimo periodo un tema d’attualità molto ricorrente tra i docenti e assegnato come elemento di approfondimento tra gli studenti. Ai docenti, però, non è mai stato assegnato un tema di approfondimento del tipo: “Come vivono e come si sentono gli studenti in questo periodo?” I professori, i dirigenti hanno idea di che cosa siano oggi i nostri stati d’animo? Conoscono i nostri pensieri che vorticano pericolosi e minacciosi nella nostra testa al di fuori alla scuola? Siamo delle creature in fase adolescenziale e dovremmo avere bisogno di un pugno di certezze che ogni giorno, accuratamente, ci vengono sottratte. Tolte a causa dell’orribile scudo dell’emergenza Covid che protegge gli organi preposti da un’assoluta e acclamata impreparazione nella gestione dell’emergenza mentre, di fatto, tutte le classi della mia età, essendo in Ddi o Dad, non necessitano di altri ulteriori sconvolgimenti.
Siamo a casa, in ambiente domestico, quindi potenzialmente “protetti” da qualunque contagio. Ci teniamo in contatto tra compagni attraverso quei programmi messi a disposizione dalle varie piattaforme per la condivisione delle immagini audio e video, per mezzo delle quali svolgiamo anche le lezioni. Forse non avete ancora compreso che la vostra stanzetta o il vostro spazio dove utilizzavate il vostro personal computer per scopi di studio e ludici, ora è stata annesso a una classe virtuale della scuola. Anschluss è il termine che nel 1938 si utilizzava per l’annessione dell’Austria alla Germania nazista per la costruzione della Grande Germania. Anschluss è il termine che voglio adoperare per l’annessione del mio spazio domestico al plesso scolastico. Per questo motivo, oggi voglio parlare dell’obbligo di mantenere le videocamere accese, perché non tutto quello che si vede esternamente di una persona è il riflesso di quello che c’è dentro: non sempre quel che una persona mostra fuori è ciò che è dentro di noi. Mostrarsi a una telecamera non è come essere in presenza in classe, dove esiste una normale “disattenzione civile” umanamente causata dalle distrazioni del momento. In aula non ci fissavano su quel maledetto schermo osservando fino alla nausea tutte le faccine dei compagni che ci permettono di rilevare particolari fastidiosi che prima normalmente ci sfuggivano.
Ci sono molti modi per dimostrare un sentimento, un’emozione, uno stato d’animo e credo che questa pandemia stia davvero facendo uscire tutto quello che le persone, stanche, stufe, esauste, non sono mai riuscite a esternare prima d’ora. Subiamo la coercizione e la vessazione di tenere le webcam sempre attive, strumentazioni che a molte persone, me compresa, mettono angoscia, disagio, che fanno quasi passare la voglia di alzarmi alla mattina sapendo che qualcuno possa chiedermi di accenderla e con la minaccia che, se non lo faccio, mi mettano un voto basso nel registro. Siamo in un periodo storico e politico molto brutto e questo influisce in modo deciso su tutto; nemmeno il Medioevo, definito il periodo più buio della storia, ha portato l’essere umano a perdere i valori condivisi, a trasformare l’essere umano in qualcosa di orribilmente cinico e disposto a calpestare gli altri in qualunque modo pur di raggiungere scopi ormai evidenti a tutti. Stiamo vivendo il Neopeggio, un periodo cioè che sta trascinando l’umanità nel baratro più buio mai osservato e vissuto prima. L’uomo è fatto per adattarsi – è vero – e capisco benissimo il pensiero dei docenti che con i pochi mezzi a disposizione vogliono avere la situazione della classe in mano. So che non accendere la webcam potrebbe sembrare una forma di mancanza di rispetto nei loro confronti perché magari pensano che sia un modo per non interessarsi alle lezioni.
Ma purtroppo ci sono anche dei fattori psicologici, fattori che ti fanno combattere ogni mattina allo specchio, chiedendo aiuto allo specchio stesso del tuo bagno o della tua camera prima di accendere il tuo computer per affrontare cinque lunghe ore di scuola in Dad. Certo, è un problema psicologico legato all’autostima con i suoi stati d’umore che a volte sono alti e forse un po’ più spesso sono bassi, ne sono perfettamente consapevole. C’è chi, come me, ci lavora da anni e chi ci lavora da poco, per tentare di combattere questa propria insicurezza che, nonostante gli sforzi, non comprendi. E non capisci da dove partano i fittoni di queste maledette radici. Tuttavia, di una cosa sono assolutamente certa, ed è quella di trovarmi in difficoltà assieme a tutti quei ragazzi e ragazze che come me condividono questo insormontabile problema. Purtroppo questo antipatico aspetto non è nemmeno certificabile come un limite, così come accade per altre situazioni di fragilità di altri compagni.
A scuola, in classe, era diverso. In presenza, seduta su un banco, non ti vedevi riflessa in nessuno schermo come sei realmente. Nessuno poteva fare una foto al tuo volto a insaputa di tutti. A volte accade che si blocchi la connessione sicché la tua immagine rimane bloccata in posizioni che nella vita reale non puoi avere se non per un’infinitesima frazione di secondo e quindi difficilmente visibile da altri. Prima di recarmi a scuola, mi alzavo prima, mi truccavo, mi preparavo, dedicavo il tempo necessario per apparire accettabile agli occhi degli altri, ma nessuno mi obbligava a mostrare il mio viso in primo piano a tutti, nessuno mi obbligava a vedermi “per quei cinque secondi” dell’appello o, peggio, per tutta la durata della lezione. A scuola non ti vedevi riflessa al contrario, storta e magari diversa da come ti vedi allo specchio, lungo e duro lavoro sul quale perdevi tanto tempo per renderti un minimo passabile, decente.
Non si tratta del concetto “non l’accendo perché non voglio ascoltare” e nemmeno “non l’accendo perché devo farmi le mie cose”. Men che meno per sfida, ma ci son fattori ben più profondi della psiche che non traspaiono e non arrivano al docente e meno ancora al dirigente, molto impegnato su altre questioni. Ci sono anche gli studenti maturi, quelli che, come me e molti altri miei compagni, hanno compreso l’importanza di prepararsi per un mondo che nulla ci sta offrendo per garantirci un futuro. Questo è un peso troppo importante per le nostre ancora deboli ma decise spalle. Quindi c’è anche chi è sempre presente e partecipe con l’audio e che interagisce anche senza video acceso per problemi ben più importanti. Sicuramente c’è chi è molto sicuro di sé e guarda oltre perché non conosce il problema; per questo, tanti complimenti a loro. La realtà è un’altra; da questo punto di vista non siamo tutti così forti. Ci si mette anni, mesi, per lavorare su se stessi, per cercare di vedersi un po’ meglio. Per cercare di vedersi un minimo come si vorrebbe davvero essere. Poi arriva il Covid, uccide tutto il lavoro fatto in tanto tempo, e la scuola, con l’alibi della sua emergenza, uccide e devasta tutto.
Nessuno, nemmeno il garante per la privacy si pronuncia sul fatto che, una volta accesa la webcam, di fatto si sta entrando in una casa privata, dove esiste una privacy, un ambiente domestico nel quale esistono molti aspetti che ho l’impressione non siano stati adeguatamente valutati: esistono situazioni difficili e talvolta sono presenti anche contesti imbarazzanti come genitori che possono litigare, fratelli con le stesse problematiche di utilizzo Ddi/Dad, cani che abbaiano, genitori in smart working, spazi angusti, ristretti o semplicemente previsti per essere una domus e non un ufficio o un’aula scolastica, spazi condivisi con altri familiari con altra tipologia di esigenze. L’aspetto privacy non si ferma solamente a questo spaccato di realtà ma va ben oltre. Ad esempio, quando la webcam è accesa qualcuno potrebbe scattare delle foto con il telefono cellulare allo schermo del personal computer, riprendendo situazioni imbarazzanti o non gradite all’interessato e generando conseguentemente un indesiderato trattamento di dati personali a tutti gli effetti. Lo sappiamo come sono i ragazzi della mia età, non aspettano altro che un momento ideale per scattare una foto imbarazzante per poi generare disagio a quella determinata persona presa di mira.
Se non ricordo male, la ripresa di immagini e altro erano state vietate in classe; ora che la classe è in ogni famiglia, ognuno dovrebbe essere libero di decidere se accenderla o meno anche e soprattutto valutando le situazioni che si presentano in quel dato momento. È fondamentale chiedere una profonda riflessione e un esame di coscienza a tutte quelle persone che si nascondono dietro a delle regole, dietro alle loro incapacità organizzative proteggendosi dietro a emergenze già gestite, che si infiltrano nella torbida nebbia della retorica frase “è una mancanza di rispetto”. Lo Stato non aiuta, è vero, ma ciò non giustifica il fatto che a rimetterci debbano essere i giovani che sono il prezioso futuro del Paese, la classe dirigente del domani. Una cosa però ho imparato dall’attuale classe dirigente: ciò che non voglio e non dovrò essere io domani!
Sono solidale e chiedo condivisione massima a tutti quei ragazzi che accendono lo schermo sotto il ricatto e la coercizione di avere paura di ricevere un voto negativo o un richiamo e che poi passano i pomeriggi interi a piangere perché costretti a mostrarsi in primo piano, contro la loro volontà, come se fosse tutto normale, come se fosse uno spettacolo, perché si sa che è così; la concentrazione di noi ragazzi dopo un po’ diminuisce e cosa vai a guardare? Lo schermo del computer – è normale – e cosa vai a vedere? Come sei tu, per vedere come ti vedono gli altri, ovvio, soprattutto in una società come quella di oggi dove ci sono famosi stereotipi e prototipi televisivi, modelle e social che ti fanno vedere una bellezza che nessuno di noi si vede e si vedrà mai addosso. Siamo costretti quindi “vestirci” di un “abito” che già la società ci cuce addosso ogni giorno e in più davanti a uno schermo, in primo piano; per metà giornata risulta complicato e sicuramente influisce sulla nostra psiche adesso e in futuro. E a noi adolescenti chi pensa? Questa “pandemia” ci ha distrutto la parte più bella della nostra vita: le uscite tra amici a divertirci, le cene insieme, le discoteche, i balli, i viaggi, i falò in spiaggia; e nei momenti peggiori ci è stato proibito per due mesi di vedersi con fidanzati, parenti e quegli amici che magari ci facevano da famiglia.
E chi ci restituisce tutto questo tempo gettato via? Andare a fare la spesa al supermercato era diventato l’unico motivo d’uscita, l’unica attività che ci faceva “respirare” un po’ di aria e, per la disperazione, anche chi odiava lo sport si era messo una tuta per andare a camminare o a correre. Quella che abbiamo vissuto e che stiamo tutt’ora vivendo può essere considerata a tutti gli effetti un’esperienza traumatica e per certi versi psicologicamente irreversibile. Perché sì, lo stato d’ansia e di disagio dovuto a guerre fredde e pandemie influisce su di noi profondamente e influirà in futuro trasmettendo questi stati d’animo ai nostri figli. Quando pratichiamo il potere della condivisione facciamo un atto estremo di pacificazione: con noi e con gli altri. Ed è questo il mio obiettivo: usare questo potere per cercare di riuscire a cambiare qualcosa in positivo in questa società che non merita il dono della purezza e della semplicità di giovani belli dentro come noi!
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Lettera firmata
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 180, dicembre 2020)