Approvata dal Parlamento scozzese la proposta del premier Sturgeon. Ma Londra si oppone
Lo scorso 29 marzo è ufficialmente iniziata la procedura di divorzio fra il Regno unito e l’Unione europea. L’ambasciatore britannico Tim Barrow ha consegnato a Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, la dichiarazione d’intenti. Il termine massimo è fra due anni, il 29 marzo 2019, quando si sarà idealmente posto fine ai negoziati e la Gran Bretagna divorzierà definitivamente dall’Europa.
Ancora non sono chiari i termini della separazione, se si tratterà dunque di una hard Brexit o di una soft Brexit. Ciò che è invece cristallino è che la Scozia – che ha votato compatta per il remain – non ne vuole sapere. Torna in auge l’ipotesi di un nuovo referendum secessionista, cavalcata dal primo ministro scozzese – e leader dello Scottish National Party – Nicola Sturgeon. Soltanto tre anni fa, a settembre 2014, si era già tenuto un referendumper l’indipendenza, che rivelò che il 55% dei residenti in Scozia voleva rimanere con il Regno unito. Tuttavia, come sottolinea il manifesto dello Scottish National Party, sono cambiati i presupposti. Si manifesta un’inedita ottica per un tentativo di secessione: separatista, sì, ma in virtù di una seconda unione, ritenuta più importante.
«Now it’s not the time», così ha chiosato l’iniziativa il primo ministro britannico Theresa May. Non è il momento – che è una parafrasi molto british per un secco “no” –, non ora che «le energie devono concentrarsi sui negoziati con l’Ue». È indubbio che nulla sarebbe più deleterio per il futuro e la stabilità di Westminster, considerati i gravi problemi di credibilità che sta già affrontando. Un secondo referendum sarebbe un suicidio politico per la May.
Al contrario, per la Sturgeon il momento è più che fertile: sia che ottenga una seconda consultazione o meno, ne uscirà vittoriosa. Qualora riuscisse a strappare il via libera, è quantomeno probabile che una fetta degli “unionisti” all’Inghilterra del 2014 cambi idea in funzione di una prospettiva europeista. Nell’eventualità, più realistica, che questo non accadesse, gli inglesi si rivelerebbero nuovamente come oppressori e non rispettosi della volontà popolare. Come si potrebbe evincere dall’infelicissima frase «la maggior parte del popolo scozzese non vuole un secondo referendum per l’indipendenza», pronunciata dalla May pochi giorni prima che il parlamento scozzese approvasse il progetto referendario, il 28 marzo. Tutto lascia presagire una – forzata – concessione di nuove autonomie.
Un’interessante soluzione, immaginata dall’ex primo ministro Gordon Brown, potrebbe essere quella federalista. Mediatore fra l’intransigenza di tories e Snp, il federalismo concederebbe libertà ai singoli parlamenti di trattare autonomamente con l’Ue. Decentrando il potere da Westminster – idealmente chiamata a legiferare solo per difesa, politica estera e l’essenziale del welfare –, Edimburgo, e con lei Belfast e Cardiff, otterrebbe la facoltà di autodeterminarsi e di legiferare su rapporti internazionali, agricoltura, industria, tassazione.
L’unico ostacolo a una prospettiva confederata resta l’Inghilterra, ferma nel conservatorismo che la caratterizza da sempre, costringendo così le periferie ad avvalersi del proprio nazionalismo. Del resto, la stessa Brexit è una manifestazione dell’immobilismo inglese, che, nonostante la crisi degli stati nazionali, si crede autosufficiente in un mondo ormai suddiviso in enormi blocchi, soprattutto economici. L’Inghilterra da sola non ha la forza di trattare con nessuno degli attori globali e appare una caricatura stanca e irrilevante dell’impero che fu. La Scozia può andare avanti, l’Inghilterra no.
Ludovica Merletti
(Lucidamente, anno XII, n. 136, aprile 2017)