Nel gennaio 1916 nasceva l’Asci: rilettura semiseria del movimento delle buone azioni, ieri e oggi
Era il gennaio 1916 quando il conte Mario di Carpegna, guardia nobile del papa, fondò l’Asci (Associazione scoutistica cattolica italiana). Era l’inizio di una storia destinata a durare. Una storia che in appena un secolo avrebbe partorito un presidente del Consiglio scout. Un avvenimento straordinario per chi nutre scarsa stima verso queste “persone”. Ma molto è accaduto in cent’anni e molte più sono le voci che circolano su di loro. Voci confermate dagli stessi affiliati e “pentiti”.
Tutto cominciò nell’Inghilterra del 1907 con il primo campo scout. L’ideatore del sistema, il sir inglese Robert Baden-Powell (1857-1941), è tuttora oggetto di culto da parte dei fanatici dalle braghe corte. La realtà, però, è che quest’uomo non aveva intenzioni filantropiche ma opportunistiche. Era un generale che voleva formare soldati atti all’esplorazione – scouting, appunto. Una necessità scaturita durante l’esperienza della Seconda guerra boera. Fare il lavaggio del cervello fin da giovani per prepararli era facile. Che poi il tanto amato B-P fosse anche una brava persona, è possibile, ma molti accoliti esagerano a venerarlo come un santo assoluto. Pochi anni dopo il fenomeno contagiò anche l’Italia. I primi (1912) furono i gruppi scout laici, il Cngei (Corpo nazionale giovani esploratori ed esploratrici italiani) – vestiti di un bel verde nausea, al contrario dei futuri puffi blu cattolici.
Poi arrivò il papa. La Chiesa voleva, come sempre, dire la propria, e allora il “pezzo grosso”, Benedetto XV, diede il suo placet a Carpegna. Così, nel 1916, nacque l’Asci che, con alle spalle un potere sempre forte in Italia, soverchiò i rivali laici, divenuti ormai una minoranza. Ma un periodo nero minacciava questa nuova realtà. Con la salita al potere di Benito Mussolini nel 1922, ogni associazione giovanile fu vista come un potenziale pericolo. Meglio sarebbe stato far confluire tutti nei Balilla, vicini all’ideologia del regime. Nel biennio 1927-28 le organizzazioni vennero sciolte, Asci compresa. Poteva essere la conclusione di tutto. Invece molti scout continuarono a riunirsi in segreto.
Nacquero così gruppi clandestini come le Aquile randagie. Operando nel Milanese, aiutarono ebrei e perseguitati a passare il confine – mentre oggi lo scout medio a malapena aiuta la vecchia ad attraversare la strada. Altri ancora si unirono ai partigiani per una più convenzionale lotta al fascismo. Finita la guerra, le attività dell’Asci ripresero e da allora la pandemia scoutistica proseguì la propria inarrestabile diffusione. Il Dopoguerra fu anche l’inizio della loro consacrazione. Il loro senso del dovere, o “spirito di servizio”, e l’attenzione al sociale meritò loro un maggiore apprezzamento popolare. Soprattutto vista l’affluenza in massa di scout volontari a Longarone dopo la tragedia del Vajont nel 1963. Un’esperienza che costrinse molti giovani a diventare uomini.
Arrivati al 1974, mentre l’Italia si esprimeva sul divorzio, un grande matrimonio stava per celebrarsi. L’Asci e l’Agi (Associazione guide italiane) si unificarono nell’Agesci (Associazione guide e scout cattolici italiani). Dopo sessant’anni lo scoutismo riuniva maschi e femmine. Era l’avvio per le migliaia di voci – molte vere – che circolano sugli scout. Infatti, da allora si sviluppò la tendenza degli scout ad accoppiarsi fra di loro, dando vita a una progenie malata e illimitata. Perché, è noto: un figlio di genitori scout sarà a sua volta scout. Si trova impresso nel suo codice genetico.
Oltre che riguardo l’aspetto riproduttivo, sullo scout circolano numerose leggende, come che sappia accendere un fuoco sfregando legnetti. Falso. Lo scout ormai usa sempre l’accendino. Per accendersi la sigaretta. Vero è invece il profondo odio fra scout e parrocchia boys. Pare che lo scout cattolico non sopporti il bigottismo e l’ipocrisia del parrocchiano. Ma questi ultimi hanno sempre qualche colpa da farsi perdonare: perciò elargiscono denaro e lo scout ne approfitta per procurarsi improvvisati autofinanziamenti. Però, il peggio è che lo scout non è riconoscibile quando veste in borghese. Sembra una persona normale. Forse aiuta chi vede in difficoltà o ti fa una predica morale, ma non è detto. Più probabile che faccia il cazzone insieme ai suoi amici. Chiunque per strada potrebbe essere uno scout. Invece, riconoscerli nei loro pantaloncini blu in pieno inverno è facile. Tanto, si sa: «Sono dei bambini vestiti da cretini guidati da cretini vestiti da bambini».
Le immagini: Robert Baden-Powell, Aquile randagie e stemma dell’Agesci.
Michele Baldaro
(LucidaMente, anno XI, n. 121, gennaio 2016)
Peccato, un articolo iniziato con una ricostruzione storica imbruttito da una serie di luoghi comuni ed insulti.
Gentilissimo lettore, grazie per averci scritto e per aver commentato l’articolo del nostro redattore. A difesa di Baldaro, le rispondo che forse lei non ha colto il taglio ironico del “pezzo”. Non vedo, comunque, insulti o brutture varie. Ci (sor)rida su…
Il direttore di “LucidaMente.com”
Sempre a mia difesa, aggiungerei il fatto che sono scout Agesci da più di tredici anni e per questo non avrei alcun interesse nel creare una sterile sequela di offese verso un’associazione di cui io stesso faccio parte. Il taglio ironico – ironico, non denigratorio: è ben diverso! – che ho voluto dare non voleva essere offensivo. Se così fosse stato letto, mi dispiace ma sinceramente non vedo dove sia il problema.
Da scout, non trovo nulla di offensivo. L’intenzione era rivedere la storia dello scoutismo in Italia, a grandi linee, per motivi di consegna. È stato fatto. Si è voluto unire il passato con il presente. La realtà con la realtà. E la realtà prevede che ci sia verità. Che il meno possibile sia taciuto: non avrebbe avuto senso tacere i luoghi comuni solo perché non piacciono a qualcuno debole di stomaco.
Non ho rinnegato i meriti degli scout nell’ultimo secolo, anzi, sono orgoglioso di averli riconosciuti anche se in poche righe. Non per questo, però, dovevo presentare un’esposizione trionfalistica di un’associazione che ha dei limiti, come ho potuto osservare io stesso dall’interno per tutti questi anni. Forse magari sarebbe piaciuta di più una sequela di “e gli scout han fatto questo… e poi han fatto quest’altro”. Però questa non è che una parte di un tutto. Io volevo mostrare anche un’altra parte del tutto. E l’ho fatto. Poi che sia offensivo, beh, non lo è. Cioè, me lo sento dire e lo vedo da anni e sinceramente ci rido su.
Quando mi danno del coglione perché vado in giro la domenica mattina con meno venti gradi non mi offendo. Mi diverto. Non è un insulto; è una constatazione. I luoghi comuni fanno ridere proprio per questo: gli interessati ne ridono perché troppo bizzarri o fin troppo veri. E se solo si sapesse quanti miei amici scout stanno con una scout, si capirebbe quanto è vero.
Poi, non so. Il mio punto di vista da “affiliato” è questo ed è il più condiviso (solo perché “univoco” può sembrare una parola esagerata) tra le centinaia di scout che ho conosciuto lungo la mia strada. Non ho parlato della nostra route in Etiopia nel 2012, né della route nazionale nel 2014, né il nostro progetto (purtroppo effimero) di rimuovere tag e graffiti dai muri di alcune vie del centro della nostra città, né la nostra route di servizio fra i carcerati nell’estate 2015.
E quando verso la fine dell’articolo ho scritto che non si riesce a riconoscere uno scout quando non è in uniforme, beh, direi che questa è la prova. Uno scout che elogia e scherza sugli scout. Una rarità… O forse semplicemente non ci si è mai posti la domanda che ci possa essere gente capace di autocritica e di non prendersi troppo sul serio? “Ai posteri l’ardua sentenza”.
Le auguro una buona giornata.
Accetto la chiave di lettura che ha voluto gentilmente chiarire nella sua risposta; confesso che non mi era sembrata così esplicita.
E’ vero, non devono esserci toni trionfalistici o celebrativi; è giusto affermare che l’associazione non è libera da problemi.
Mi piacerebbe semmai sottolineare l’estrema dinamicità, ovvero la capacità di cambiare per adeguarsi ai tempi, tenendo saldi i valori di riferimento.
Sarà forse che proprio l’avere dei valori risulta strano agli occhi dei più e si crea quel misto di timore-stupore verso gli atteggiamenti degli scout.
Mi permetto di obiettare sulla riconoscibilità degli scout: io trovo che ci sia, eccome, la differenza tra i ragazzi cresciuti come scout e quelli non; una differenza che forse non è nell’esteriorità dei gesti, ma più profonda.
Quanto al fatto che uno scout sceglie come compagno/a un altro scout credo che dipenda proprio, e mi piacerebbe avere una sua opinione, dal fatto che è più facile trovare in uno scout una persona in grado di esporre dei valori e di confrontarli. Da questo punto di vista, purtroppo, il panorama odierno è desolante.
Buona strada
Gentilissimo lettore, quanto da lei scritto in questo secondo commento, lo condivido più o meno nella totalità. Anche se devo appunto dire che il problema (poi forse “problema” è un termine troppo forte, in realtà) dello scout odierno – me compreso – è l’incapacità di esteriorizzare i propri valori anche nel quotidiano, non so se per una non completa adesione ai valori, che fortunatamente non sono assoluti, altrimenti si ricadrebbe in un’ideologia – e lo scoutismo tutto può essere tranne che questo -, o se per un più banale timore dell’opinione altrui. Questa è la difficoltà della testimonianza. Per questo, diciamo, ci si può accontentare di valori interiorizzati che però non hanno una manifestazione reale – lo scout infatti lo si può riconoscere più facilmente parlandoci seriamente più che a prima vista, altrimenti sembra, com’è giusto che sia, un ragazzo come tanti altri.
In relazione all’ultimo punto, in cerca di una mia opinione, vorrei risponderle per come la vedo io, premettendo che non ho avuto relazioni sentimentali con ragazze scout – e in questo son quasi un caso unico. Che gli scout siano più inclini al confronto di valori e al portare l’onere di certi valori che sono difficili da trovare ma che sarebbe bello condividere, è tendenzialmente vero. Ma come lo è per uno scout, lo è pure per un non scout. Quindi mi verrebbe da dire che, più che un aspetto di natura caratteriale sviluppata dalla pedagogia scoutistica nel corso della formazione dai lupetti fino al clan, ci sia altro. Uno scout è più probabile – non obbligatorio, sennò saremmo davvero una setta – trovi il proprio partner (non mi va di usare parole forti come innamorarsi o parole zootecniche come accoppiarsi) in un altro/a scout perché è un tipo di persona con cui si ha avuto più spesso a che fare. Bene o male si condividono molti valori, ma al tempo stesso si condividono già esperienze perlomeno molto simili. Si tratta di qualcuno che non sia un “salto nel buio” ma una persona che si può pensare di conoscere già nei caratteri fondanti. È poi durante la relazione, questa nata come impellenza quasi fisiologica, che si capisce se è davvero la persona adatta e allora non si parlerà più di relazione scout-scout ma di relazione come tutte quelle che esistono. Cioè io l’ho tentata di codificare così. Lo scoutismo è il pretesto iniziale, l’eventuale innamoramento e la durata del rapporto trascendono l’ottica del semplice “stanno insieme perché scout”. È più corretto dire: si sono messi assieme perché scout, ora stanno assieme perché lo vogliono/si amano/non troverebbero di meglio (molte sono le alternative).
Spero di non averla annoiata troppo ma quando mi si chiede un’opinione rischio di essere particolarmente prolisso. E già che ci sono vorrei giusto aggiungere che la mia precedente risposta può esser sembrata aggressiva, ma era solo perché ci tenevo a chiarire il mio punto di vista sulla questione.
Non mi resta che dire, come a conclusione di ogni lettera scritta ai partenti che mi hanno preceduto (da noi almeno è tradizione che ogni membro del clan scriva una lettera al partente, però quest’anno sarà il mio turno di prendere le mie scelte per la Partenza): buona strada!