Schopenhauer e la ricerca di una scappatoia al non-senso della vita: arte, compassione, ascesi
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Come può una persona immaginare una volontà (astratta, metafisica) del tutto irrazionale, se non ha in sé il senso della razionalità? Bisogna chiederlo al filosofo tedesco Arthur Schopenhauer. In che modo si può avvertire questa irrazionalità come un peso e non una caratteristica naturale dell’esistenza? Occorre di nuovo domandare a lui o, se si preferisce, a Giacomo Leopardi, poiché sotto quest’aspetto si somigliano molto.
Una cosa è sostenere che la vita (questa concreta e maledettissima vita) non ha senso, un’altra che si è costretti a viverla come un destino ineluttabile, al punto che cercare di opporvi resistenza sarebbe del tutto inutile, come per gli ergastolani che un tempo marcivano ad Alcatraz. Nella filosofia aristocratica di Schopenhauer, gli effetti dell’insensatezza della vita sembrano non avere altra causa che se stessi, poiché sulla loro vera causa (che dipende da una volontà cieca e irrazionale) non è possibile dire alcunché di oggettivo. In pratica, invece di attribuire agli esseri umani in generale (o ad alcuni, in particolare) il non-senso dell’esistenza, il filosofo preferisce addossarlo alla natura, che si servirebbe degli uomini per riprodursi all’infinito, senza uno scopo preciso. Schopenhauer ha sempre polemizzato con i filosofi euroccidentali, eppure non è mai riuscito a distinguere chi è responsabile, più di altri, dell’insensatezza della vita. Alla fine nessuno è imputabile di nulla, in quanto tutti siamo determinati da forze oscure e inconsce, come sostenuto nella psicanalisi freudiana che a lui si ispira.
L’uomo, quindi, non sembra avere alternative e il non volersi suicidare, arrendendosi alla volontà irrazionale, diventa soltanto una resistenza fine a se stessa, priva di sbocchi. Si rinuncia a tutte le illusioni, credendo di esserci riusciti e facendo di questo traguardo una nuova forma di volontà irrazionale, che rifiuta desideri privi di senso e, quando li si distrugge, lo fa ancora una volta senza un perché. «Dio mio» direbbe san Paolo «se faccio non ciò che voglio ma ciò che non voglio, chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Lettera ai Romani, 7, 13-25). C’è una grande differenza, infatti, tra l’impedire a se stessi di confondere la realtà coi propri desideri, e l’affermare che il miglior modo per non illudersi sia non desiderare alcunché. Dunque non diventa forse anche questa una scelta non meno forzata di quell’esistenza obbligata a compiere atti contro la propria volontà?
La contraddizione maggiore di Schopenhauer sta nel fatto che egli cerca di negare il principium individuationis, cioè l’individualità, soprattutto tramite l’ascesi − non mistica, beninteso – che invece è tipicamente individuale. In un senso capovolto, fa la stessa cosa della determinazione cieca e irrazionale, che invece voleva combattere: infatti alla volontà – sostiene Schopenhauer − non interessa l’individuo ma solo la specie, cioè la riproduzione sessuale mascherata dall’illusione dell’amore. Così, mentre in natura la mantide religiosa divora il maschio dopo l’accoppiamento, egli ha rinunciato al matrimonio perché la sua donna lo tradiva. Se si esaminano le tre vie di liberazione dalla volontà irrazionale (arte, compassione e ascesi), si scopre che in ognuna di esse ciò che il soggetto nega è, in ultima istanza, solo la sessualità, cioè la riproduzione fisica. L’arte è riproduzione intellettuale di un genio individualista che contempla le idee eterne senza lasciarsi condizionare dalle esigenze prevaricatrici e prepotenti della volontà. La compassione è praticata da chi non ha famiglia e si dedica esclusivamente al prossimo, condividendo il dolore universale di vivere un’esistenza senza senso, priva di un fine gratificante. L’ascesi è, invece, quella forma di misticismo indo-buddista che gli uomini scelgono rinunciando al matrimonio o, da anziani, dopo essersi riprodotti. Con l’ascesi si supera la tentazione del suicidio, che è rifiuto volontario dell’esistenza, mentre il problema sta nel superare qualunque altra forma di volontà.
In tutte e tre le soluzioni l’uomo è sessualmente casto, quindi viene da pensare che il motivo attorno a cui ruota il pessimismo di Schopenhauer sia appunto quello della sessualità repressa. Rinunciarvi significava, in un certo senso, rifiutare qualunque altro desiderio. Il filosofo non è mai arrivato a sublimare tale forma di auto-castrazione in un’attività davvero positiva; al contrario, ha fatto di un simile estremismo il pretesto per negare l’esigenza di affermarsi in qualche campo della vita. Naturalmente, ne ha avuto la possibilità in quanto il padre creò le condizioni affinché godesse di una sua rendita. L’unica soddisfazione per Schopenhauer è coincisa con la sua stessa produzione teoretica da filosofo isolato: neppure l’insegnamento universitario gli ha mai dato piacere, dato che alle sue lezioni gli studenti preferivano quelle di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Concretamente, comunque, egli non praticò alcuna delle tre vie di liberazione dall’irrazionalismo, neppure l’astinenza sessuale, poiché dovette curarsi dalla sifilide.
Le immagini: un ritratto del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer.
Antonio Carone – dall’archivio di NonCredo. La cultura della ragione, «volume bimestrale di cultura laica»
(LucidaMente, anno VIII, n. 96, dicembre 2013)
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