“A tutti quelli che non possono comprarsi un televisore a rate perché il loro contratto non glielo consente; ai trentenni che vorrebbero fare un progetto di vita e si sentono dire “sei ancora giovane”; a tutti gli intellettualmente complessi cui viene imputato di essere problematici; alle persone di carattere cui viene rimproverato di avere un brutto carattere; a chi rivendica con tenacia i propri diritti e passa per rompiballe; a chi crede nella buona fede e nel merito ed è costretto a scontrarsi con l’ipocrisia e il cinismo; alla mia famiglia e ai miei amici, le uniche persone cui consento di dirmi “Camo, sei una gran rompicoglioni”.
Una lucida e amara descrizione del precariato – E’ la dedica che apre Io cattiva? No, io precaria, sottotitolo Manuale del lavoratore “flessibile” (Edimond, pp. 46, € 8,00), della giornalista ferrarese Camilla Ghedini, con già all’attivo Una famiglia lunga un secolo (Este Edition, 2006, pp. 40, € 6,50). In Io cattiva? – preceduta da un’Introduzione dell’avvocato ferrarese Renzo Oppi – l’autrice affronta in poche pagine, con freddezza e lucidità, il problema del precariato. Lo fa senza pedanteria, senza pontificare, con la precisa volontà di bandire, come lei stessa rivela, le ipocrisie di una politica e di una società che riduce il problema della flessibilità lavorativa all’impossibilità di accendere un mutuo per l’acquisto di una casa.
Il precariato diventa mobbing – Attraverso un dialogo tra un precario e un fantomatico datore/datrice di lavoro che a poco a poco svela la propria aridità, la Ghedini fa una precisa denuncia: il precariato, nella concretezza, si traduce in mobbing. “Il bravo precario è quello che non si ammala. Mai. Mai un raffreddore, mai una tonsillite, mai una bronchite. Di norma – scrive l’autrice – la malattia non è contemplata nei contratti moderni che vorrebbero gente con fisici da supereroi”. Ma le imputazioni dell’autrice non finiscono qui. “Il buon precario – prosegue – deve avere un’unica ambizione: sentirsi sottoposto, averne piena consapevolezza, non desiderare altro che compiacere chi è gerarchicamente superiore. Il suo scopo è la felicità dell’altro. Sul posto di lavoro deve andare d’accordo con tutti e con nessuno. Non importa che sia diplomatico, l’importante è che sia ipocrita. Quel che deve emergere – incalza la Ghedini – è la sua duttilità nel prostrarsi, nel saper essere opportunista, nel saper tagliare i ponti con le persone al momento giusto”.
Il buon precario: colui che non chiede più niente – Ancora, il buon precario non deve avere idee, opinioni, perché nessuno – in barba all’articolo 21 della Costituzione – gli ha detto che può esprimerle. Ma il punto più amaro del libro è l’incipit dell’ultimo capitolo: “Quando il precario non ha più desideri ha raggiunto l’apice, il tantra della professionalità. Quando non chiede neppure più di essere assunto ma magari si fa dare un bel calcio nel culo è evidente che ha raggiunto la consapevolezza di sé”. Amaro, dicevamo, ma fedele specchio di una società che non richiede più talento, creatività, ingegno. Il bravo precario, questo è il succo, deve essere autistico, non deve pensare, non deve avere spirito critico, non deve avere coscienza dei propri diritti. Altrimenti diventa pericoloso e destabilizzante. Perché la società, come scrive la giornalista, ti chiede una cosa sola: “Non rompere i coglioni”.
La soluzione è reagire – Ma a questa condizioni, secondo l’autrice, bisogna ribellarsi. Bisogna avere il coraggio di non rinunciare alla propria educazione, quella ricevuta in famiglia; bisogna avere il coraggio di non abdicare alla voglia di coltivare la propria cultura e i propri interessi; bisogna avere il coraggio di non rinnegare i sacrifici fatti con la speranza di vivere dignitosamente. Questa società ti chiede di fingere di desiderare di meno, ti vuole genuflesso, ti vuole “grato”. E questo, afferma con forza la scrittrice, non va bene.
Cosa rispondono politici e giornalisti – Il testo, che l’autrice ha inviato ai vari dicasteri, ha ottenuto, tra le altre, la risposta scritta dell’ormai ex presidente del Consiglio Romano Prodi, che in una lunga lettera l’ha invitata a portare avanti la propria battaglia. Ancora, è stato presentato a Ferrara da Mario Molinari, segretario dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e giornalista d’inchiesta (Striscia, Matrix, Iene), che ne ha riconosciuto i contenuti di “assoluta verità” e che ha affrontato il tema del precariato e delle sue conseguenze in un ambito importante come quello dell’informazione, “dove è cresciuto, vendendo ai giovani sogni di affermazione professionale e sociale”. La morale è nel colophon del pamphlet: “Bisogna dire basta a questa follia”.
L’immagine: la copertina del pamphlet di Camilla Ghedini.
Eva Brugnettini
LucidaMente, anno III, n. 28, aprile 2008)