Autore di ampio respiro, lo scrittore francese di origine lituana costituisce una tessera preziosa del ricco mosaico della narrativa contemporanea
Qualora volessimo scrivere una storia della cultura del XX secolo, nel suo panorama non potrebbe mancare la figura di Romain Gary. Autore francese poliedrico e complesso, vi occupa una posizione di tutto rispetto con i suoi scritti che abbracciano gli anni che vanno dal 1945, in cui esordisce con Educazione europea, fino al suicidio, avvenuto il 2 dicembre 1980 nella sua casa di Parigi. Romain Kacew (questo il suo vero nome) era nato nella capitale della Lituania Vilnius nel 1914.
«Compagnon de la Libération», gaullista e amico di André Malraux, ha saputo raccontare gli eventi più scottanti del secolo scorso, senza sottrarsi all’impegno in prima linea. Aviatore, aveva rifiutato l’armistizio del generale collaborazionista Philippe Pétain e continuato la propria lotta nella squadriglia dei bombardieri della France libre. Attento osservatore della follia omicida di cui è stato testimone, ha nutrito i suoi romanzi di riflessioni che spaziano dal terrorismo anarchico (Lady L., 1958) alla Seconda guerra mondiale (La promessa dell’alba, 1960), alla bomba atomica (La testa colpevole, 1968), sino alla guerra di Corea (I clown lirici, 1979). Creatore di opere originali, ha mostrato il suo talento artistico passando da un registro stilistico all’altro in opere come La danza di Gengis Cohn (1967), «testo insolito nella letteratura francese, una favola allegorica sullo sterminio nazista, dall’umore burlesco, preso in prestito alla tradizione ebraica» (Julien Roumette), e Cane bianco (1970), amara riflessione sul razzismo, che è invece ancorato in una situazione storica ricostruita minuziosamente, con uno stile documentario. Il più recente dei suoi romanzi, che è possibile leggere in Italia, è Il vino dei morti, tradotto da Riccardo Fedriga per l’editore Neri Pozza e pubblicato nel 2021 (pp. 172, € 14,25).
Gary, in realtà, ne cominciò la stesura a Aix-en-Provence nel 1933, ma lo rimaneggiò più volte nel corso degli anni. Sappiamo, ad esempio, che vi lavorò ancora nel giugno 1939 in Svezia, mentre si trovava presso il suo amico Sigurd Norberg, nella speranza di incontrare l’amore giovanile: la giornalista Christel Söderlund, conosciuta a Nizza due anni prima. Il manoscritto lo accompagnerà per tutta la vita, come lui stesso confiderà, poi, in Vita e morte di Émile Ajar: «[…] abbandonandolo e riprendendolo continuamente, trascinando le sue pagine con me attraverso le guerre, i venti, le maree e i continenti, dalla prima giovinezza all’età matura […] il mio Vino dei morti». Sottoposto all’analisi della psicologa Maria Bonaparte, amica di Sigmund Freud, il manoscritto di 331 pagine fu rifiutato degli editori. Per Gary fu un duro colpo. Accusato di soffrire di «complesso di castrazione e di fantasie necrofile», l’autore lo consegnò, allora, a Christel, che lo ha conservato fino al 1992, quando lo ha messo all’asta a Parigi, all’hotel Drouot.
Il racconto, apparentemente bizzarro (drolatique), si snoda attraverso i bassifondi di un cimitero, in cui si agita tutto un mondo assurdo e privo di senso, che il protagonista Tulipe scopre dopo avere scavalcato «il cancello del cimitero» ed essere ricaduto «sul lato opposto» (Incipit), imbattendosi in morti viventi – puttane, monaci, soldati, istitutori pedofili… – che non sono altro che la caricatura del mondo «in superficie». E, se alla fine del viaggio l’eroe si accorgerà che si è trattato semplicemente di un sogno, gli interrogativi che Gary lascia intendere al lettore rimangono comunque inquietanti: e se la vita non fosse altro che una parodia della morte? E se tutte le perversioni di cui l’uomo è vittima e testimone continuassero anche nell’oltretomba? La morte, la guerra, la sessualità, l’alcolismo, ma anche la fiducia nella fratellanza, tanto più necessaria in un mondo dominato dalle «barriere» del fanatismo, sono soltanto alcuni dei temi tirati in ballo, che ritorneranno a più riprese nelle opere successive, mettendo in scena il «fenomeno umano» con tutte le sue contraddizioni e le sue zone d’ombra. E in questa avventura, costituita da un’incessante ricerca di se stessi e di un significato da attribuire al proprio vissuto, egli fa rientrare anche il proprio percorso esistenziale.
C’è Romain, infatti, dietro al personaggio di Jacques Rainier, il ricco imprenditore di 59 anni protagonista di Biglietto scaduto, o dietro a quello di Morel di Le radici del cielo, Premio Goncourt 1956, ribattezzato come il primo “romanzo ecologico”. Così come ci sono sua madre nel libro La promessa dell’alba e la moglie, l’attrice americana Jean Seberg, in Cane bianco e nella protagonista femminile di Les mangeurs d’étoiles. Tuttavia, come ci dice lo scrittore francese Jean-Marie Catonné, sarebbe un errore ridurre questi personaggi alla mera psicologia del loro creatore. Poiché è esattamente il contrario. Gary non si è proiettato nei protagonisti dei suoi romanzi, ma ha costruito la sua identità attraverso di loro. In Pour Sganarelle, ripubblicato da Gallimard nel 2003 e non ancora tradotto in Italia, Gary scrive: «Avverto un bisogno divorante di diversificarmi, attraverso identità nuove e molteplici, e di vivere attraverso di esse un’esperienza totale […] uscendo così dall’abitudine e dalla claustrofobia di uno stato individuale: quello del piccolo Regno dell’Io» (p. 12). A queste parole seguiranno, un anno dopo, quelle contenute ne La promessa dell’alba: «Uno strano disagio si impossessò di me: avvertii immediatamente la sensazione di essere qualcun altro» (p. 163).
Paul Audi, specialista di Gary, spiega così l’interesse che il suo universo narrativo suscita: «C’è in lui un che di visionario. […] Secondo lui, è un uomo vero solo chi è in grado di ammettere che è la debolezza la sua essenza. Ed è in questo che la sua letteratura è estremamente moderna». Anche il Italia il successo che lo scrittore riscuote è grande e ha radici lontane. È alla Mondadori, infatti, che si deve la sua scoperta e la prima traduzione nel 1946 del romanzo d’esordio. Il titolo scelto, Formiche a Stalingrado, si adattava al significato profondo del libro, espresso nelle ultime righe dalla metafora delle formiche, la cui esistenza di duro lavoro e di sofferenza richiama quella di ogni essere umano. Il discreto successo che l’opera riscosse spinse, poi, la casa editrice a ristamparlo più volte nel 1967, 1976, 1980, 1987. Nel 1969 il libro uscì, inoltre, anche presso Japigia Editrice. Oggi, la notorietà dello scrittore la si deve soprattutto a Neri Pozza, che nel 2005 ha inserito tra i suoi titoli La vita davanti a sé, aprendo la strada a tutti gli altri testi garyani. Determinante è stata la figura del direttore editoriale Giuseppe Russo, che ha raccontato di essersi ritrovato tra le mani il libro per puro caso. Un incontro certamente «fatale, per la storia, l’universalità e la modernità dei temi e per la bellezza della lingua sgrammaticata, realistica e poetica allo stesso tempo» (Oblique Studio).
Da La promessa dell’alba, nel quale è messo in evidenza l’influsso a volte devastante della madre di Gary sul figlio unico, sono stati tratti ben due film: uno girato nel 1970 e diretto da Jules Dassin, l’altro del 2017, regista Éric Barbier.
Della splendida quanto tormentata consorte Jean Seberg, cui LucidaMente ha dedicato un articolo (vedi In memoria di Jean Seberg e Nico). Da notare che la donna, ormai divorziata da Gary, si era suicidata, ad appena 40 anni, sempre a Parigi, poco più di un anno prima dell’ex marito.
Marilena Genovese
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 194, febbraio 2022)