In questo articolo si racconta la storia di un uomo e del suo sogno, a pochi passi da Bologna
Sull’Appennino bolognese, lungo la statale Porrettana, in località Grizzana Morandi (Bologna), sbuca tra un tornante e l’altro un’eclettica costruzione. La sua vista ricorda a tratti la Russia di Pietro il Grande, a tratti l’Andalusia moresca… e un po’ sembra uscita da una storia dei fratelli Grimm.
In effetti, l’aria che si respira attorno alla Rocchetta Mattei è proprio quella di una fiaba, che ha come protagonista un personaggio eccentrico, una sorta di curatore sciamanico. Il nome di Cesare Mattei (1809-1896) oggi forse non dice molto, ma tra la metà e la fine dell’Ottocento era conosciuto in tutto il mondo. Per distribuire i propri prodotti elettromeopatici, nel 1884 possedeva qualcosa come 107 depositi collocati tra Europa, Stati Uniti, Haiti e Cina. L’elettromeopatia è una disciplina da lui fondata che unisce omeopatia – molto in voga in quegli anni grazie agli studi di Christian Friedrich Samuel Hahnemann, suo istitutore –, fitoterapia, alchimia e magnetismo. Nel 1844, addolorato dalla morte della madre e in contrasto con la medicina classica che non solo non l’aveva guarita, ma non aveva nemmeno alleviato le sue sofferenze, Mattei iniziò a dedicarsi allo studio di ciò che gli avrebbe dato grande notorietà (il suo nome compare perfino ne I fratelli Karamazov (1879) di Fëdor Dostoevskij).
Avvocato di professione, letterato, politico, uomo di cultura e grande conoscitore della medicina greca di Galeno e Ippocrate, ma anche di quella cinese, Mattei credeva fortemente che per curare una persona fosse indispensabile riportare le cariche elettriche del suo corpo a una situazione di neutralità. Per farlo somministrava ai pazienti dei granuli medicati, derivati da piante spontanee ed erbe officinali degli Appennini unite a dei fluidi elettrificati che dovevano ristabilire l’equilibrio tra i poli positivo e negativo. La produzione di articoli elettromeopatici continuò anche dopo la morte di Mattei e cessò definitivamente nel 1968. Gli esatti procedimenti usati dallo scienziato rimangono ad ora sconosciuti, dal momento che i suoi scritti sono andati perduti. Per approfondire i propri studi, creare i rimedi e avere la possibilità di curare i pazienti, nel 1850 Mattei acquistò i terreni sui quali sorgevano le rovine della Rocca di Savignano, una costruzione del XIII secolo probabilmente appartenuta alla contessa Matilde di Canossa.
Qui l’uomo, che nel frattempo aveva ricevuto da papa Pio IX il titolo di conte, edificò quella che lui stesso battezzò “Rocchetta”, dove si stabilì nel 1859. Il castello è una sorta di melting pot architettonico davanti al quale è impossibile rimanere indifferenti. Ci sono rimandi precisi a costruzioni quali l’Alhambra di Granada (Cortile dei leoni) e la Grande moschea di Cordoba (Cappella), ma anche richiami medievaleggianti, decorazioni liberty e gotiche. La motivazione principale di questo labirinto stilistico risiede soprattutto nella travagliata storia della Rocchetta. Dopo la morte di Mattei, l’edificio passò al figlio adottivo, nonché amministratore, Mario Venturoli, che aggiunse gli ornamenti liberty in voga all’epoca. L’uomo in realtà riuscì a rientrare in possesso della Rocchetta soltanto qualche tempo dopo la scomparsa del conte, che poco prima di morire l’aveva diseredato e cacciato. Mattei, infatti, negli ultimi anni della sua vita era diventato particolarmente paranoico e temeva che chiunque potesse sottrarre le sue formule segrete.
Per tale motivo aveva costruito un sistema di ponti levatoi che permetteva l’accesso alla sua camera privata. Quest’eccentricità causò anche un ritardo nel ritrovamento del suo corpo, che fu rinvenuto dal personale di servizio soltanto tre giorni dopo la morte. A causa della sua ossessione, Mattei sospettava che la moglie di Venturoli gli avesse portato un caffè avvelenato e, spaventato, nel 1895 allontanò entrambi. All’inizio del Novecento Venturoli riuscì a tornare in possesso della Rocchetta e nel 1906 riportò le spoglie del padre adottivo all’interno del castello, dove egli stesso aveva scelto di essere sepolto. Sulle colline bolognesi giunsero poi gli anni bui dell’occupazione nazista, durante i quali una squadra delle SS usò la Rocchetta come quartier generale, devastando e trafugando tutto ciò che poteva. È per questo motivo che oggi i visitatori la trovano quasi completamente priva di arredi. Al fine di ripristinare il mobilio originale molto preziose sono risultate alcune fotografie, scattate quando Mattei era ancora in vita, che hanno anche permesso di riconoscere oggetti ora collocati altrove.
Negli anni Cinquanta la Rocchetta è stata acquistata da un famoso commerciante di Riola (Vergato), Primo Stefanelli detto “il Mercantone”, che trasformò il castello in un’attrazione turistica, aggiungendo finte prigioni e pozzi e adattando una delle dépendance ad albergo e ristorante. Nel 2005 la Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna ha acquisito la Rocchetta, anche per omaggiare il conte che nel 1837 era stato uno dei suoi 100 fondatori. Nel 2015 l’edificio è stato riaperto al pubblico, che può visitare il 60% della struttura, la parte cioè dove Mattei riceveva e curava i suoi ospiti, i quali dovevano affrontare una sorta di percorso di purificazione fatto di scale ripide, corridoi angusti e torri. La sezione privata, in cui invece viveva il conte, purtroppo ad oggi non è ancora accessibile perché i lavori di restauro richiedono moltissimi fondi.
La Rocchetta è visitabile nel weekend e solo su prenotazione dal sito www.rocchetta-mattei.it. Il costo del biglietto comprende anche la guida, indispensabile e preziosissima per capire e apprezzare appieno l’incredibile storia dell’edificio e del suo creatore.
Le immagini: la cappella e la tomba di Cesare Mattei (foto di Silvia Bidoli); la Rocchetta Mattei vista da lontano, nel suo insieme ricco di stili differenti; Cesare Mattei; un cofanetto con prodotti elettromeopatici.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIV, n. 160, aprile 2019)