Il nodo unità d’Italia per Pasquale Amato in un libro edito da Città del Sole
Nel saggio del 1943 Pensiero e azione del Risorgimento (Einaudi), Luigi Salvatorelli ci rammenta come “fra l’aprile ’59 e il marzo ’61 – si dovrebbe anzi dire l’ottobre ’60 – in un periodo, cioè, favolosamente breve, fu realizzata l’unità italiana, non più esistita territorialmente da tredici secoli, dall’invasione longobarda in poi, e come autonomia politica unitaria non esistita mai”.
Come fu possibile realizzare in tempi così ristretti ciò che per tanti secoli fu solo vagheggiato? Quale fu il ruolo effettivamente rivestito dai suoi ormai leggendari protagonisti? Quale fu la consistenza del nuovo regno italiano, la cui proclamazione risale al 17 marzo 1861, una data che però nessuno ricorda né festeggia? Quali ripercussioni si ebbero, in termini economici e sociali, sulle popolazioni degli stati preunitari, in particolare sulle plebi meridionali?
A queste domande gli storiografi hanno risposto in modo assai disparato e, a distanza di tanto tempo, la questione risorgimentale appare ancora piuttosto controversa.
Le prime fasi degli studi – Per un’approfondita ricostruzione delle interpretazioni “classiche” del Risorgimento rimandiamo alla lettura del poderoso tomo di Walter Maturi Interpretazioni del Risorgimento, edito da Einaudi nel 1962, che riassume circa un secolo e mezzo di discussioni e ricerche (a partire dalle tesi del patriota settecentesco Carlo Denina fino agli scritti di Denis Mack Smith). Occorre ricordare che la prima fase degli studi si svolse in media re, ossia durante gli anni dell’unificazione, e vide protagonisti alcuni degli artefici della lotta per l’indipendenza nazionale, in particolare gli attivisti democratici Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Giuseppe Mazzini, Carlo Pisacane e i liberali moderati Nicomede Bianchi, Luigi Farini, Giuseppe La Farina (e non mancarono neppure le posizioni dei conservatori reazionari, ostili all’unificazione, come Cesare Cantù, Giuseppe Spada, Giacinto De Sivio). Giudizi critici non più agiografici si svilupparono nei decenni post unitari, quando prese corpo la prima interpretazione “classista” del Risorgimento, che lo valutò essenzialmente come una rivoluzione borghese, scarsamente attenta alle esigenze del proletariato e dei contadini. Nella stessa epoca si diffuse la ricerca storiografia d’ispirazione positivista, il cui principale interprete fu Gaetano Salvemini, che, nel saggio del 1899 I partiti politici milanesi nel secolo XIX, criticò l’operato dei liberali moderati, rivalutando il ruolo dei democratici nel processo unitario. In quello scorcio di secolo non mancò neppure chi denunciò, da posizioni nazionaliste e aristocratiche, le debolezze del Risorgimento, come fece Alfredo Oriani in La lotta politica in Italia del 1889.
Tre orientamenti a confronto – Nel Primo dopoguerra si diffusero tre principali orientamenti interpretativi. In primo luogo, si affermò l’indirizzo “democratico”, incarnato da Piero Gobetti, che nell’opera del 1926 Risorgimento senza eroi espresse severi giudizi sul moto risorgimentale, riducendolo ad una fiacca “rivoluzione fallita”, portata avanti maldestramente da una minoranza di patrioti. Ci fu, poi, il filone “nazionalista”, fatto proprio dal fascismo, che ebbe il suo maggior teorico in Gioacchino Volpe, autore nel 1927 de L’Italia in cammino, in cui si magnificava il Risorgimento come evento di rilevanza mondiale, che aveva segnato l’ingresso del popolo italiano nella Storia. Emerse, infine, la posizione “liberale”, sostenuta soprattutto dal crociano Adolfo Omodeo che, ne L’età del risorgimento italiano (1931), celebrò le scelte compiute dai governi liberali italiani prima dell’avvento del fascismo. Quest’ultima linea interpretativa fu poi ripresa nel già citato libro di Salvatorelli, il quale definì “assurda” la tesi che “vorrebbe ridurre il Risorgimento al processo di espansione territoriale progressiva dello stato sabaudo”, evidenziando, nel contempo, anche l’importanza del contributo mazziniano alla causa italiana.
Romeo versus Gramsci – Nel Secondo dopoguerra, l’occasione per riaprire il confronto storiografico fu fornita dalla pubblicazione, curata dalla casa editrice Einaudi tra il 1948 e il 1951, della prima edizione dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. L’interpretazione gramsciana, nel riproporre la tesi del Risorgimento come “rivoluzione passiva”, si soffermò ad esaminare la portata dell’azione dei liberali moderati, che seppero costituirsi come partito socialmente uniforme, difendendo gli interessi dell’alta borghesia e dimostrandosi capaci di esercitare “egemonia”, ossia di dirigere i ceti subalterni e i gruppi politici rivali. I democratici, invece, si rivelarono privi di un programma coerente, né furono in grado di coinvolgere le masse contadine, e finirono per farsi trainare dai loro avversari. Tale interpretazione “classista” fu ripresa dagli storici d’ispirazione marxista, tra cui ricordiamo Giorgio Candeloro, Franco Della Peruta, Emilio Sereni, Rosario Villari. Contro le tesi di Gramsci si espresse lo storico liberale Rosario Romeo, che, in Risorgimento e capitalismo (Laterza, 1970), ricorse ad argomentazioni di tipo economico, utilizzando la nozione di “accumulazione primitiva” (mutuata da Marx), attraverso cui intendeva giustificare la creazione del capitalismo in un paese industrialmente arretrato, com’era l’Italia risorgimentale. Una diversa linea interpretativa fu avanzata dallo storico inglese Mack Smith, che, in opere come Garibaldi e Cavour nel 1860 (Einaudi, 1958) e Storia d’Italia (Laterza, 1969), denunciò gli angusti metodi con cui si era realizzato lo stato italiano, criticando aspramente le scelte opportunistiche e trasformistiche di Cavour e dei suoi seguaci, ai quali contrappose la generosa abnegazione di Mazzini e di Garibaldi. Nell’ultimo trentennio, infine, si è assistito alla diffusione di un orientamento storiografico “revisionistico”, che ha messo in discussione la validità dell’intero processo risorgimentale, scivolando talvolta nell’encomio eccessivo degli stati regionali preunitari, oppure nei vagheggiamenti separatistici.
Le tesi di Amato – Tra gli scritti usciti recentemente ci ha incuriosito particolarmente Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi. Da Napoleone a Porta Pia (1796/1870) (Città del Sole Edizioni, pp. 192, € 10,00) di Pasquale Amato, docente di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Messina. L’autore si propone di rivisitare gli avvenimenti che portarono alla costituzione dello stato unitario italiano, prendendo in esame un lasso temporale piuttosto vasto e focalizzando l’attenzione non soltanto sui passaggi cruciali del Risorgimento, ma anche sulle sue cause più remote (la Rivoluzione francese e la dominazione napoleonica) e sui suoi ulteriori sviluppi (il brigantaggio meridionale, la Terza guerra d’indipendenza e l’occupazione di Roma del 1870). Nella Premessa, inoltre, egli chiarisce che il suo scritto “tenta di recuperare una riflessione storiografica equilibrata tra i due estremi su cui ha sempre oscillato la ricostruzione di quel periodo: da una parte l’esaltazione fuori misura di personaggi ed eventi sino a mistificazioni che hanno rasentato e talora superato i limiti della decenza; dall’altra parte gli scritti revisionistici che, pur avendo preso le mosse dalla giusta intenzione di reagire alle più marcate mistificazioni, sono scivolati spesso verso l’esaltazione smisurata della positività degli Stati e dei governi pre-unitari”. L’autore fa risaltare, soprattutto, il conflitto fra Cavour e Mazzini, promotori di due modi d’intendere il Risorgimento diametralmente opposti: sostanzialmente “annessionistico” il progetto dello statista piemontese, coerentemente unitario quello del pensatore genovese. Proprio a quest’ultimo si attribuisce il merito di aver “seminato” l’idea di unità nazionale, mentre a Cavour si riconosce, nonostante tutto, il pregio di aver saputo “raccoglierne i frutti attorno al suo progetto monarchico-moderato di allargamento del Regno di Sardegna”.
I moti di Reggio e di Messina – Ci sembrano di grande interesse storiografico alcuni episodi, poco noti, che Amato opportunamente riesuma dall’oblio: la rivolta antiborbonica del 1847 di Reggio, Messina e Gerace; le tre consecutive elezioni – nel 1866 – di Mazzini a deputato nella circoscrizione di Messina. Il primo evento anticipò i moti del 1848 e si concluse tragicamente con la condanna a morte di diversi patrioti – tra cui Domenico Romeo di Santo Stefano d’Aspromonte e i “martiri di Gerace” Michele Bello, Pietro Mazzoni, Gaetano Ruffo, Domenico Salvadori, Rocco Verduci. Il secondo episodio testimonia il malcontento – espresso con furore in tante altre zone del Sud dal brigantaggio – che serpeggiava in una parte consistente della popolazione di Messina, danneggiata irreparabilmente dalla politica economica liberista e “nordista” intrapresa dalla Destra storica (la città peloritana perse circa 33.000 posti di lavoro nell’industria tessile tra il 1861 e il 1866, a vantaggio delle manifatture settentrionali!). Le prime due elezioni di Mazzini furono annullate dalla Camera dei deputati, perché su lui pendeva una condanna a morte in contumacia, emessa dai giudici genovesi circa trent’anni prima dell’unità d’Italia. La terza votazione, ennesima prova di una protesta pacifica ma pervicace, fu resa vana dal “gran rifiuto” dell’esule che rinunciò alla nomina, presumibilmente perché non si riconosceva per niente nel regime monarchico dei Savoia e nella “mala unità” da loro costruita, cui, peraltro, aveva fornito un indispensabile contributo.
L’immagine: la copertina del libro di Pasquale Amato.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno I, n. 12, dicembre 2006)
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