Dopo la favola moderna del suo primo romanzo, il noto giornalista torna a emozionarci con “Fai bei sogni” (Longanesi). Una storia vera, questa volta, perché è la sua: quella di un bambino che si deve confrontare con la morte della madre
Fai bei sogni. Le mamme lo dicono spesso quando danno la buonanotte ai loro bambini. Lo faceva anche la mamma di Massimo Gramellini. E glielo disse pure quella vigilia della fine dell’anno di più di quarant’anni fa, in cui lui la vide viva per l’ultima volta. Non poteva allora che intitolarsi così il libro, uscito lo scorso marzo (Longanesi, pp. 212, € 14,90), attraverso il quale il noto giornalista racconta questo evento tragico della sua infanzia che tanto peserà sulla sua vita, di bambino prima e di adulto poi. Non si tratta più di una fiaba moderna, come il suo primo romanzo, L’ultima riga delle favole (2010), sempre edito da Longanesi. È la sua storia privata quella che leggiamo, ma potrebbe essere la storia di chiunque di noi che nella vita abbia perso qualcosa e si sia rifiutato di accettarlo. A volte fa più comodo ignorarla, la verità, e magari passare una vita intera a fare la vittima o a nascondersi dietro una corazza o una parvenza di normalità. Succede quando la verità fa paura.
Un colpo di scena incomprensibile e ingiustificabile per un bambino di nove anni svegliarsi la mattina senza il sorriso della mamma cui era abituato. Le vaghe risposte dei grandi ai suoi Dov’è non fanno poi che accrescere i dubbi che diventano presto sensi di colpa. Perché non torna? Non mi vuole più bene? Che cosa ho fatto di così cattivo per farla andare via da me? E anche quando gli raccontano “la verità”, è talmente inspiegabile da non poter essere vera. Meglio chiudere gli occhi, contare fino a dieci e pensare di vederla magicamente riapparire. Ma non è così che vanno le cose. E, allora, diventa più semplice rimuovere il fatto. Le angosce no, però, quelle restano e si depositano nella mente e nellʼanima. Arrivando a costruire la leggenda della mamma rappresentante di cosmetici indiani che viaggia molto per lavoro e a togliere la sua foto dallo scaffale per evitare che la visita improvvisa di un compagno di scuola possa riesumare con una domanda la donna della foto.
E tutto questo per non fare i conti con quell’assenza, con quel dolore sordo e quel vuoto incolmabile che gli scavano dentro e si trasformano in aggressività e smarrimento. «Così danneggi solo te stesso – gli aveva detto una volta padre Nico, il suo professore di greco del liceo – […] I se sono il marchio dei falliti! Nella vita si diventa grandi nonostante». Parole al vento. Ma compromessi sono anche i rapporti con tutti gli altri che sono rimasti, in primis quello col padre, con cui lʼargomento “mamma” diventa presto un tabù e a cui lo tiene legato ormai solo un filo color granata: il Toro.
Il Massimo Gramellini inquieto, insicuro e inadeguato, che esce dal libro ci apparirà distante dal giornalista ironico e spavaldo che noi conosciamo – quello del Buongiorno su La Stampa o delle top news commentate con Fabio Fazio il sabato sera a Che tempo che fa. E qui vanno fatte due considerazioni. La prima, è che ognuno ha il suo modo di vivere il proprio dolore e le proprie angosce: c’è chi le grida e chi invece le vive in privato e in silenzio, un po’ per carattere, ma un poʼ anche per educazione. «Noi per fortuna – gli diceva il padre dopo essere rimasti soli – non abbiamo bisogno di nessuno». E questa maschera dell’“eroe solitario che basta a se stesso” non è facile da gettare, diventa quasi una seconda pelle, una protezione. La seconda, cui si arriva col finale del libro e può essere letta come un monito, è che la serenità è sempre una conquista, possibile, anche se spesso raggiunta dopo anni di lotta – ma a volte non basta una vita intera! – e sicuramente nel caso dellʼautore anche grazie allʼanima gemella che ha avuto la fortuna di incontrare, la donna dei punti esclamativi e del dopo non esiste! che diventerà sua moglie.
Non deve essere stato facile per il giornalista scrivere questo libro, darsi al lettore in maniera così intima. Ma tra le pagine si intravede quellʼurgenza che lo ha guidato – a volte anche con ironia –, come se scriverlo avesse significato distaccarsi dal suo contenuto e finalmente liberarsene, poter andare oltre. Lʼennesimo appuntamento con Belfagor, quel demone interiore che lo ha perseguitato per tutta la vita e che da ragazzino Gramellini aveva battezzato come il fantasma del Louvre. Ogni tanto spuntava fuori – nei momenti cruciali, come l’inizio e la fine di un amore, o il concretizzarsi di un sogno –, facendogli insorgere dubbi e insicurezze, perché si alimentava delle sue paure: rifiuto, sfiducia, abbandono. Scrivere questo libro ha significato risvegliare volontariamente quel mostro. Ma ci sono degli appuntamenti nella vita che non possono essere rimandati, e di solito sono quelli che arrivano in maniera casuale e del tutto inaspettata.
E il fantasma, questa volta, è un ritaglio di giornale ingiallito dentro una busta marrone. «Dopo quarant’anni sarebbe ora che qualcuno ti dicesse la verità» – gli dice Madrina, l’amica-sorella di sua madre, mentre gliela consegna una mattina dell’ultimo dell’anno. Era il tassello che mancava per chiudere il cerchio e mettere tutte le cose al loro posto – la vestaglia della mamma sul letto, i due omoni senza camice bianco, le parole compassionevoli sulla bocca dei vicini. Era stato più facile credere alla verità che gli avevano raccontato, piuttosto che a quella che lui da solo, anche se era un bambino, aveva intuito, ma rimosso. «La verità vi farà liberi» – è stato detto. E con la verità nel cuore e nella mente si possono finalmente fare bei sogni. Anche ad occhi aperti, ma alzando gli occhi al cielo.
Una successiva recensione di Silvana Tabarroni dell’omonimo film (2016) di Marco Bellocchio, tratto dal libro di Gramellini, è “Fai bei sogni”, piccolino… ma Belfagor è in agguato!
Katia Grancara
(LucidaMente, anno VII, n. 77, maggio 2012)
A me il libro di Gramelini è parso il risultato di un lavoro a tavolino. Gramellini è un ottimo giornalista, ma questo non significa che in automatico sia anche un ottimo romanziere. La scrittura del libro mi pare piuttosto piatta, scontata. E le vicende appaiono (a me) poco approfondite. Tutto sta piuttosto in superficie e questo tutto è attraversato da un buonismo non sempre sopportabile. Il libro manca di originalità e di personalità autentica: mi sembra qualcosa di dovuto, manca la riflessione, manca autenticità. Segue un canovaccio, una ricetta ed è troppo descrittivo (dovrebbe anche interpretare i fatti). Insomma, non si tratta di un’operazione all’altezza della promessa, come capita troppo spesso in questa nostra letteratura moderna sostanzialmente fiacca. Non voglio accodarmi alle lodi, magari condizionato dalla bella scrittura (peraltro non bella), tanto meno condizionato dal nome. Apprezzo Gramellini, ma questo non mi obbliga a dirne bene sempre e comunque. La mia è una semplice opinione, intendiamoci, un’opinione determinata tuttavia dal grande rispetto che si deve alla letteratura, ripeto, oggi derelitta per colpa di editori paragonabili a venditori di automobili di seconda e terza mano.
Cordialità,
Dario Lodi
La narrazione di un dolore privato e autentico, scritto semplicemente bene,privo di orpelli ed essenziale nel susseguirsi degli avvenimenti.
La vita stessa può essere piatta e scontata, ma non per questo da considerarsi banale.
Totalmente in disaccordo con l’opinione precedente.
Il grande rispetto lo si deve alla vita, che a volte può non brillare di originalità, ma non per questo meno degna di essere raccontata.
Grazie a questo libro denso di lucida e quindi serena malinconia.
Ho letto il libro tutto d’un fiato, e questo mi capita solo quando la storia è avvincente e ben scritta. Non capisco pertanto, anche se la rispetto, l’opinione negativa di Dario. A me pare invece un libro che tocca le corde del cuore, soprattutto pensando che si tratta di una storia vera, forse a Dario è mancato, ma non glielo auguro, di aver vissuto qualcosa di simile per potersi immedesimare nel protagonista-autore. Io comunque consiglierei la lettura di questo libro a chiunque.
Io sono d accordo in tutto con Dario, invece. Il libro mi è sembrato troppo descrittivo, troppo superficiale. Nonostante una storia molto importante, il racconto è molto piatto… non mi trasmette affetto questo bambino, e in alcuni punti è perfino ironico… non sembra affatto che la storia l’abbia propriamente vissuta.
Ci sono poi alcune frasi che proprio non ho capito; non è fluida la lettura.
Mi dispiace, mi aspettavo molto di più da questo libro.