L’“Introduzione” di Margherita Ganeri a “Il Signore della pioggia” (edito da I libri di Emil) di Giovanni Nebuloni
Riportiamo di seguito, per intero, l’interessante saggio di Margherita Ganeri, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università della Calabria, che precede il quinto romanzo-thriller dello scrittore milanese Giovanni Nebuloni: Il Signore della pioggia (Bologna, I libri di Emil, pp. 336, € 16,00) ed è, in sé, la migliore esplicazione della poetica narrativa del “fact-finding writing”.
Giovanni Nebuloni ha esordito solo cinque anni fa, ma da allora si è rivelato un autore particolarmente attivo che, prima de Il Signore della pioggia, tra il 2007 e il 2010, ha già pubblicato quattro romanzi. La lettura della sua intera produzione restituisce il profilo originale e coerente di un romanziere che ha ben individuato, probabilmente dopo lunga riflessione, la propria poetica e la propria corda stilistica. Tra il libro d’esordio, La polvere eterna (Edizioni LucidaMente 2007), e l’ultimo, Dio a perdere (Prospettiva editrice 2010), passando per Fiume di luce (Il Filo 2008) e per l’intenso e ambizioso Il Disco di Nebra (inEdition 2008), sembra in effetti tendersi un filo rosso omogeneo, per l’invenzione di trame d’azione articolatee complesse, che rimandano da un canto alla scienza e da un altro a una peculiare riflessione etica e metafisica, sullo sfondo di ampie suggestioni culturali e di un immaginario visuale molto marcato, influenzato soprattutto dal cinema, dal video e da Internet.
Non si tratta di una scrittura solo fantascientifica, né di semplice phantasy o di action thrilling. Per definirne la tipologia si potrebbe utilizzare la definizione più ampia, diffusa nei paesi anglofoni, di speculative fiction, che accorpa e unisce tutti questi generi, sottolineandone anche i sottesi livelli di speculazione ermeneutica, benché, a dire il vero, sia molto difficile individuare una categoria precisa, un’etichetta, per le narrazioni di Nebuloni. La sua scrittura non tenta di uniformarsi alle mode, non rivela la presenza di modelli emulati, non si ispira in modo mimetico a fonti o a repertori, né consumistici né di qualità. Al contrario, pur risentendo palesemente di letture letterarie e filosofiche e di visioni di film, persegue in modo esplicito e tenace un proprio irriducibile istinto inventivo.
La presenza di una notevole tensione innovativa è consapevole. Nebuloni, pur definendosi un «artigiano della scrittura», piuttosto che uno scrittore, non è un artista naïve, e la sua intentio auctoris, direbbe Umberto Eco, si colloca per scelta in direzione opposta rispetto alle ambizioni più banali di affermazione critica o commerciale. In un’intervista recentemente rilasciata alla rivista on line We Write ha dichiarato: «Non ho desiderio di modernità. Nella attualità sono già profondamente immerso. Ho desiderio invece, se non brama, d’essere innovativo e di pormi alla testa di un’avanguardia: ho fondato la corrente letteraria “fact-finding writing”, la scrittura conoscitiva». Con tale formula egli allude a un tipo di scrittura di ricerca tendente a porsi come forma di conoscenza pari o forse superiore rispetto ai paradigmi del saggismo filosofico, storiografico o scientifico.
La letteratura è sede privilegiata di un’indagine sui significati profondi, ontologici e metafisici, perché ambisce a scoprire una nuova realtà fattuale, smentendo o mettendo in discussione quelle acclarate nella doxa, senza tuttavia presumere di poter mai giungere a risposte incontrovertibili o esaustive. L’espressione deriva dal linguaggio giuridico e amministrativo, in cui rimanda alla risoluzione di controversie, e da quello della comunicazione, in cui richiama la selezione per rilevanza delle notizie. Di questa visione del letterario è importante a mio avviso sottolineare soprattutto due aspetti: il primo è la grande considerazione riposta da Nebuloni nel romanzo, ed è un fatto degno di nota, vista la crisi mondiale che la letteratura attraversa oggi, non in quanto medium di intrattenimento, ma in quanto codice conoscitivo; il secondo è il progetto di voler fondare un’avanguardia, una questione su cui si potrebbe aprire un’ampia riflessione.
L’età attuale, infatti, definita della post-avanguardia, è stata spesso descritta come l’epoca dell’impossibile sopravvivenza delle avanguardie. Solo nell’ultimo decennio, dal 2001 in poi, si è registrata una graduale erosione del clima postmodernista legato a questa visione del presente come stagione in cui non si può più inventare nulla, e, per esempio, il cosiddetto New italian realism ha segnalato, per l’affermarsi di una generazione di giovani narratori impegnati, la presenza di un nuovo humus culturale segnato dall’urgenza di intestine tensioni al cambiamento. Nebuloni, in questo senso, cattura in pieno lo Zeitgeist, e tuttavia ad esso oppone una risposta volutamente inattuale, almeno sotto il profilo dei «contenuti», per usare un suo termine, del letterario.
Il suo avanguardismo sta tutto nell’esplosiva torsione dell’immaginazione narrativa, che anela a un respiro cosmico, globale, nel quale far confluire le domande radicali sul senso della vita individuale e collettiva. Accogliere questo tipo di sfida significa porsi contro le tendenze egemoniche del mondo letterario attuale, orientate sulla contingenza dell’hic et nunc, e celebrarne una possibilità futura e al tempo stesso atemporale, perché universale.
A questa ricerca gnoseologica si accompagna una sperimentazione stilistica e formale che rema in direzione opposta, cercando, invece, un’attualizzazione della lingua romanzesca. In Nebuloni si coglie la ricerca di un linguaggio affine all’espressione cinematografica. Appassionato cultore di Lawrence Durrell, l’autore crede che la scrittura debba evolversi facendo specchio alle forme imperanti della odierna comunicazione mediatica. La scelta cade perciò sulla ricerca di plasticità visive e di correlazioni tra parole, dialoghi e flussi di immagini. Giochi linguistici, anagrammi a chiave e talora sequenze asemantiche si accompagnano a una costante tessitura icastica: le immagini evocate sono così tante e così incisive che sembra di trovarsi di fronte a una visione, piuttosto che a una semplice lettura.
Poiché tale prevalenza del visuale si collega da un lato all’idea dell’insostituibilità della narrazione romanzesca, che si differenzia nettamente − per l’autore − dalla sceneggiatura, e dall’altro alla poetica del fact-finding, essa va intesa come un intenzionale costrutto polifonico a più piani: si va da singole immagini frammentarie a una serie di sequenze, fino a una cupola di immagini portanti, come quella, ricorrente più delle altre, nel romanzo in questione, della pioggia. In virtù di tale costruzione mi pare che la cifra stilistica prioritaria, anche se non unica, dell’opera di Nebuloni debba essere considerata l’allegoria. Ma su questo è necessario tornare più avanti.
Sarebbe assai difficile riassumere la trama de Il Signore della pioggia, e non sarebbe neppure opportuno farlo, per tema di anticiparne al lettore le molteplici e avvincenti sorprese. Basti qui dire che la scansione temporale è tanto precisa e dettagliata (l’azione si svolge tra il 4 e il 15 maggio di un anno imprecisato, ed è scandita in porzioni orarie puntualmente indicate) quanto, al contrario, è esteso lo scenario geografico, tanto ampio da poter essere definito mondiale, anche se i centri principali dell’azione sono il Nord Italia, il Messico, gli Stati Uniti e la Russia. Non sembra mancare nessuno degli ingredienti di un giallo internazionale di dimensioni globalizzate: dalla presenza di attentati terroristici e criminali, compresa una strage evitata di bambini in un asilo, alle organizzazioni occulte, anche mascherate dietro società d’impresa con ambizioni scientifiche, come la Target Informatics; dalla mafia al terrorismo alla malavita; e da una serie di raccapriccianti esperimenti umani per scopi politico-militari alle azioni mozzafiato di una congerie di investigatori, di funzionari statali e di poliziotti, come il questore Ignazio Scardella o l’avvenente commissario capo Elena Cotalpe, che nel corso del racconto emergerà come personaggio chiave anche per lo scioglimento della trama. Tra i molti personaggi, compaiono anche vari premi Nobel.
La globalizzazione mediatica è protagonista assoluta, e i poteri in campo tentano di sabotarne le informazioni e controllarne la diffusione. Non manca, last but not least, un regesto misteriosofico, con rimandi all’occultismo e al paranormale, in questo caso legati alle antiche religioni e ritualità azteche. Il misterioso Signore della pioggia, anzi − questo lo si può forse rivelare − si scopre alla fine appartenere proprio al cotè di queste antiche credenze religiose, rivelandosi un dio che a distanza di secoli sembra voler rispondere alle violenze perpetrate ai danni delle maestose civiltà distrutte dalla conquista occidentale. Bastano questi pochi accenni per rendere conto della straordinaria ricchezza della trama.
I temi e i motivi sembrano inesauribili in questo testo colto e animato da insaziabili digressioni e fantasie. Tornando, però, all’allegoria come figura chiave della scrittura, essa si configura soprattutto come una ricorrenza visiva che allude a un vuoto impossibile da colmare. Secondo Walter Benjamin, si sa, l’allegoria moderna dell’avanguardia novecentesca, da Kafka in poi, è vuota. Nel romanzo in questione, l’immagine ombrello della pioggia, fittamente battente nei luoghi europei del male e della corruzione, lieve o quasi assente nei remoti centri della civiltà precolombiana, non è un semplice fenomeno atmosferico: si tratta di una figura che allude insieme a una divinità e alla fisicità della materia e dei corpi. Il suo Signore appare e non appare, tiene le fila e non le tiene, lascia in dubbio il lettore, che si chiede se esista davvero o se fulmini e diluvi non siano piuttosto eventi casuali. Quello che invece non suscita alcun dubbio è la forza visiva dell’acqua che dilaga, inonda, ingrigisce, lampeggia oppure ottunde e offusca il sole, diventando significante, rispetto al sole, di una lotta etica tra il bene e il male e tra la verità e la finzione, perché, come si legge nella prima giornata: «Accade che la realtà sia una bugia».
I personaggi sono quasi sempre stilizzati, visti dall’esterno, come in un action movie. Ciò non impedisce all’autore di farne risaltare in modo individualizzato i caratteri e le spesso non lineari personalità. Molta cura è riservata alle descrizioni fisiche e dell’abbigliamento, e non mancano i dettagli relativi alle loro spesso trasgressive pratiche sessuali. Questo è vero soprattutto per la protagonista Elena, definita «Catwoman» e «tigre del Bengala», una conturbante e determinata cacciatrice d’uomini che sa essere anche tenera, perché adora la propria nonna, e Matteo, il bambino della coppia degli amici Dileo.
Tornando al “fact-finding writing”, l’ambizioso progetto produce, ne Il Signore della pioggia, una testualità non sempre accattivante, di primo acchito, nei confronti di un lettore superficiale, pigro o distratto. Non si tratta di una lettura facile, pensata per il lettore comune. Tuttavia, Nebuloni non è neppure un autore difficile, adatto solo agli addetti ai lavori. Richiamando ancora una volta Umberto Eco, e il suo noto Lector in fabula, potremmo dire che i suoi romanzi, e particolarmente quest’ultimo, sembrano essere stati scritti per almeno due tipi diversi di «Lettori Modello». E parafrasando le celebri Postille al Nome della rosa, potremmo aggiungere che, in Nebuloni, come in Eco, i due principali lettori impliciti siano l’uno ingenuo e l’altro scaltro. L’aspetto avventuroso della trama coinvolge il primo, mentre il secondo è conquistato da un piano nascosto della scrittura.
Analogamente alla struttura bipartita dei lettori ideali presupposti, per comporre questo romanzo l’autore sembra aver seguito due criteri guida, due linee di pensiero che si incontrano in un punto di fusione. Sul piano del contenuto, oltre al fact-finding, l’intento è anche quello di omaggiare alcuni autori amati, costruendo per loro dei richiami citazionistici, in genere dichiarati. Nel Signore della pioggia c’è soprattutto Octavio Paz. Più visibile di altri, ma più nascosto rispetto a Paz, scorgiamo Edgar Allan Poe. Affiorano poi, in misura minore, Asimov, Borges, Crichton, Gogol, Hoffman, Lovecraft, Mary Shelley, Stoker, Verne, Vonnegut, e probabilmente molti altri. Ci sono, ancora, dei rimandi musicali, tra cui spiccano soprattutto quelli reiterati a Chopin, amato da Elena, e a Wagner. Si tratta di suggestioni che confermano la raffinata cultura dell’autore, e non di modelli assunti come idoli mimetici né, meno che mai, come veri e propri ipotesti.
L’unica parziale eccezione è quella di Paz, il grande poeta avanguardista di Città del Messico, premio Nobel per la letteratura nel 1990, che fu instancabile viaggiatore e intellettuale assiduamente impegnato in politica. Vari aspetti della sua vita e della sua personalità anche artistica sembrano impregnare la storia narrata, e tutti i capitoli si aprono con sue citazioni. Ma neppure nel caso di Paz il lettore riesce a identificare una chiave univoca di lettura intertestuale. Si comprende l’omaggio partecipe all’autore ammirato, ma non si attua uno svelamento di verità ipertestuali nascoste.
Non mancano, nell’opera di Nebuloni, delle verità disvelate, che però non sono quasi mai letterarie. Si pongono come tali, per esempio, la negazione del primo principio della termodinamica e una specifica interpretazione della nota formula E=mc2 in La polvere eterna; può esserlo la disquisizione sul perché Buddha non debba essere donna in Fiume di luce; e potrebbe esserlo persino l’affermazione “eretica” per cui il divino debba essere cercato empiricamente all’interno dei singoli soggetti umani, in Dio a perdere. Lo smascheramento cui tende il fact-finding riguarda, insomma, l’extratesto, quasi mai la letteratura. Ciò mostra il superamento definitivo di quella dimensione ludica, perché meramente intratestuale, che aveva fatto la fortuna di un’icona del postmodernismo letterario come Il nome della rosa, tanto per non allontanarci dal nostro paragone.
In Nebuloni, come in genere negli autori che praticano l’allegoria avanguardistica, non c’è divertissement leggero, non c’è gioco fine a se stesso: il lettore si divertirà, ma percependo serie tensioni intellettuali e stringenti verità drammatiche che lo riguardano da vicino. Infatti, non solo le culture latino-americane antiche, le frontiere estreme della tecnologia, le ricerche sul cervello, la criminalità organizzata e l’economia globalizzata sono al centro di questa scrittura: lo sono anche la psiche umana e il corpo, un corpo contemporaneamente devastato dalla violenza tecnologica del post-umano e pienamente senziente, pulsionale, erotico. I due poli della corporeità si corrispondono e si eludono in modo traslato: ancora una volta, allegoricamente.
Il finale, di cui non riveliamo nulla, è spiazzante perché riservato solo al lettore scaltro. Ma quello ingenuo arrivato alla fine è ormai stato educato a trasformarsi nel suo alias del secondo tipo, capace di gustare il livello nascosto del racconto, in cui il piacere dell’investigazione si rivela molto più complesso e più sottile rispetto a quello derivante dalla semplice fruizione della trama.
Il lettore esce da questa avventura cambiato: la conoscenza dei retroscena, le agnizioni e gli svelamenti dei complotti diventano meno significativi, alla fine, del godimento prodotto dal viaggio mentale negli spazi virtuali del romanzo. L’opera lo ha condotto in scenari plurimi e in mondi paralleli in cui si torna alle origini e insieme ci si libra nell’immaginazione del futuro. La lettura è diventata tramite di una ricerca liberatoria entro la psiche del lettore, proiettato oltre le finzioni superficiali della sua transeunte attualità, e perciò partecipe, alla fine, del senso di quella «scrittura conoscitiva» nel cui nome scrive l’autore.
(Lacrime nella pioggia. Realtà e finzione al setaccio del fact-finding writing, Introduzione a Il Signore della pioggia di Giovanni Nebuloni, Bologna, I libri di Emil, 2012, pp. 5-12)
La nostra rivista si è spesso occupata della produzione narrativa di Giovanni Nebuloni. Ecco un elenco degli articoli, a opera di vari redattori: Una tela di mistero tessuta da religioni, servizi segreti e amore Nel ventre profondo della divinità Dalla metropolitana alla steppa mongola Un oscuro enigma di 3500 anni fa Un rapido succedersi di abili e sorprendenti colpi di scena «Il “doppio” può essere la morte» La polvere eterna di Giovanni Nebuloni«È una ”kippot”, non devi toccarla!»
Margherita Ganeri
(LM MAGAZINE n. 23, 14 aprile 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 76, aprile 2012)