Mi è capitato, tempo fa, di avvisare i dipendenti di una banca che alla porta c’era una persona che non poteva entrare in quanto paralitica e che la porta era troppo stretta per la carrozzina.
Fui immediatamente ripreso, debbo dire con una certa violenza, da una signora che mi corresse: “Paralitico? Non deambulante, vorrà dire”.
La cosa mi urtò alquanto non trovando nel termine “paralitico” alcunché di offensivo. Anzi, da quando ero bambino, ho sempre sentito definire una persona priva della vista “cieco” piuttosto che “non vedente”, chi non poteva parlare era “muto” e “sordo” chi non sentiva, termini del resto, ampiamente usati da sempre e riscontrabili anche in letteratura ed utilizzati dai vari autori. Esistevano gli “istituti per ciechi” o per quanti altri affetti da problemi fisici e non.
E’ vero che, alle volte, il popolo faceva abuso di tali termini trasformandoli in nomignoli e mezzi identificativi di dubbio gusto (Cianciotto, la muta di Portici, la cieca di Sorrento, etc.), che oggi sembrerebbero offensivi o quantomeno indelicati, ma non si ha notizia che gli interessati se la prendessero più di tanto.
Chi è bravo soltanto a parlare – Bisogna considerare, inoltre, che i promotori di tali aggiustamenti di termini non sono i diretti interessati, ma quei “buoni” ad oltranza che trovano nelle parole, più che nei fatti, la soluzione dei mali che affliggono questa nostra umanità. E’ chiaro che quelli citati sono solo alcuni esempi che vengono immediatamente in mente, essendo il territorio di competenza della nostra piccola riflessione molto vasto, abbracciando situazioni fra le più disparate e tali che sarebbe difficilissimo elencarle tutte. Né la considerazione è finalizzata ad un ritorno ai tempi ed ai modi passati. Dà però da pensare l’atteggiamento estremista e l’insofferenza dimostrata da quelle belle anime, che spesso non fanno nulla per il prossimo, salvo turbarsi se un addetto alle pulizie viene definito “spazzino” piuttosto che “operatore ecologico” o se il vecchio, caro, buon “bidello” non viene citato come “collaboratore scolastico” e più recentemente “non-docente ausiliario” o un nano un “verticalmente svantaggiato”.
Una new entry nel dizionario della “correctness“ – Sui giornali è comparsa la notizia che i sordomuti non dovranno più essere chiamati in questo modo, ma “sordi preverbali”. La rappresentante del ministero competente ha affermato che con una modifica di tal genere si è fatto “un ulteriore passo avanti verso una sempre migliore tutela e verso la completa e sostanziale equiparazione di tutti i cittadini”. Non si capisce se a seguito della normativa siamo diventati tutti sordomuti (o sordi preverbali) oppure se i sordomuti sono diventati udenti e parlanti; o, meglio, solo parlanti, perché, come ha sottolineato l’autore dell’articolo, il termine sordo è rimasto.
Meglio la forma o il contenuto? – E’ chiaro che con le nostre osservazioni non si vuole mancare di rispetto agli individuo con certi problemi, che certamente non meritano di essere coinvolti nella sguaiata moda del politicamente corretto (“correctness“, per quelli che si illudono di parlare bene). Al riguardo si legga La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto di Robert Hughes, edito in Italia da Adelphi. Sarebbe bene studiare, casomai, il modo di far fronte alle esigenze di queste persone in modo da equipararle (per usare il termine della funzionaria del ministero) agli altri cittadini con i fatti e non con i neologismi, oltre tutto squinternati, se non balordi. Ricordiamoci che chi soffre, soffre comunque, sia che venga citato come “handicappato”, o “portatore di handicap”, o “disabile” o, con l’ultima versione politicamente corretta, “diversamente abile”.
Antonio Nicoletta
(LucidaMente, anno I, n. 10, ottobre 2006)