L’esperienza al Centro di accoglienza di Villa Aldini come esempio di progetto di inclusione
Il tema dell’immigrazione è ormai presente quotidianamente sui mezzi di informazione, con picchi di interesse variabili a seconda del periodo e dei fatti di cronaca. E, a volte, i migranti sembrano essere la causa di tutti i problemi che affliggono l’Italia. Anche se il numero di arrivi è in calo rispetto agli anni precedenti [fonte Unhcr], la gestione delle persone che raggiungono il nostro paese, nell’attesa di capire se possano o meno trattenersi sul territorio italiano, resta una questione da affrontare.
Oltre alle ben note difficoltà logistiche di capienza delle strutture e di mancanza di spazi adeguati dove ospitare i richiedenti asilo, si pone anche un altro interrogativo, spesso sottovalutato: quello relativo alle attività che queste persone possono svolgere nell’attesa di documenti o di risposte burocratiche, che generalmente arrivano in tempi biblici. Contrariamente al pensiero comune, infatti, lo star senza fare niente non è, in molti casi, mancanza di buona volontà, ma la conseguenza di un ulteriore problema: senza documenti non si può lavorare e la maggior parte di coloro che arrivano non hanno documenti. Perciò potrebbe essere utile sviluppare dei progetti di inclusione e coinvolgimento, che potrebbero anche favorire delle forme di incontro e di scambio con la cittadinanza, in modo da ridurre i pregiudizi e incentivare le relazioni.
Lo scorso ottobre è stata realizzata a Bologna un’esperienza che va in questa direzione rivolta agli ospiti del Centro di accoglienza di Villa Aldini e sviluppata dall’associazione Snark Space Making, da un’antropologa del Centro di studi Modi dell’Università di Bologna, da Arca di Noè Cooperativa Sociale e da Cantieri Meticci: l’obiettivo era quello di organizzare una festa al Centro aperta alla cittadinanza (però, vedi anche Villa Aldini, un’Arcadia a due passi dal centro di Bologna, ma… e Bologna: ancora a proposito di Villa Aldini… e le altre).
Per quanto possa sembrare inadeguato il termine festa accostato al tema immigrazione, bisogna sottolineare che lo scopo del progetto era tutt’altro che ludico: quello della festa è stato un pretesto, forse il più semplice, per coinvolgere in alcune attività gli ospiti di Villa Aldini, per fornire loro un’opportunità di autonarrazione – cosa che non hanno modo di fare molto spesso, specialmente in contesti pubblici – e per far loro incontrare gli abitanti del quartiere e della città. I 30 laboratori di coprogettazione, da luglio a ottobre, di tutti gli aspetti necessari all’organizzazione della giornata (comunicazione, grafica, modalità di accoglienza) sono stati l’occasione per conoscersi, esprimersi, lavorare a un obiettivo comune. Il risultato è stato un sabato di musica, danze, canti e performance ai quali ha partecipato un centinaio di persone, tra migranti, operatori e cittadini. Per favorire ulteriormente la conoscenza reciproca, durante la giornata è stata anche narrata la storia di Villa Aldini e delle attività che vengono svolte nel Centro. (Qui è riassunta l’esperienza dei laboratori ed è possibile vedere anche un breve video dell’evento).
L’esperienza di Villa Aldini è interessante perché utilizza la metodologia della coprogettazione, vale a dire un modus operandi che si sta diffondendo anche tra coloro che operano nel settore della gestione dell’immigrazione. Si tratta di un approccio basato sul confronto e sulla relazione tra le persone che devono collaborare per realizzare un progetto di interesse comune.
Questo esperimento è stata l’occasione per far incontrare due realtà, quella dei migranti e richiedenti asilo e quella cittadina, che non hanno molte occasioni di contatto e collaborazione. L’iniziativa può essere il punto di partenza per creare un modello replicabile, da utilizzare anche in altri contesti. Non che in tutti i centri di accoglienza si debbano organizzare feste, sia chiaro, ma può essere l’occasione per riflettere su come sviluppare dei percorsi per iniziare a combattere pregiudizi e tensioni. Coprogettare significa progettare insieme e per farlo è necessario entrare in contatto con gli altri, capirne il punto di vista, cercare una soluzione comune. D’altronde, senza conoscenza non c’è comprensione e senza comprensione non può esserci convivenza, inclusione e integrazione, se non assimilazione.
Le immagini: foto di Michele Cattani.
Elena Giuntoli
(LucidaMente, anno XIII, n. 149, maggio 2018)