Esattamente a cinquant’anni dagli enigmatici avvenimenti, un nuovo saggio di Fulvio Mazza, edito da Pellegrini, getta nuove, inquietanti luci su Il “Golpe Borghese” e il successivo ruolo di Andreotti, Gelli e Maletti
«Un conciliabolo di 4 o 5 sessantenni», un golpe da operetta ideato da nostalgici del fascismo e ammiratori del regime dei colonnelli in Grecia (vedi il divertente film di Mario Monicelli, Vogliamo i colonnelli, del 1973). Una bravata di poco conto, da non prendere sul serio. A lungo il Golpe Borghese è stato accompagnato da simili giudizi in sede giornalistica, storica ma soprattutto giudiziaria, con una sentenza passata in giudicato che certifica l’inoffensività di quella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970.
Cinquant’anni dopo il giudizio storico è radicalmente diverso da quello giudiziario: pur con tante sfumature e intensità diverse, è generalmente riconosciuto che il Golpe Borghese ha rappresentato un serio tentativo di sovvertire l’ordinamento democratico nel nostro Paese. Un colpo di Stato in cui avevano investito diversi personaggi ambigui e pericolosi, spesso ben inseriti nei gangli di quella stessa macchina burocratica che intendevano occupare e rovesciare. Una manovra militare e politica bruscamente interrotta proprio dai suoi stessi organizzatori, in quella notte romana ancora troppo oscura e dal contorno incerto. Ora una nuova pubblicazione, basata su materiale documentale inedito, ci riporta a quella notte del 1970, cercando di far luce su uno dei misteri più torbidi della nostra Repubblica. Il libro è Il “Golpe Borghese”: Quarto grado di giudizio. Le verità sulla leadership di Gelli e sulle censure di Andreotti e Maletti (Pellegrini Editore, pp. 246, € 16,00), frutto della ricerca di Fulvio Mazza, direttore dell’agenzia letteraria Bottega editoriale.
Un quarto grado di giudizio
Sin dalle prime pagine il libro rivela la propria vena critica, confessando al lettore il suo scopo: quello di proporsi come un «provocatorio Quarto grado di giudizio», confutare la tesi affermata in sede giudiziaria e ristabilire una verità storica fatta di colpevoli, responsabilità ben definite e un pericoloso progetto eversivo e reazionario. Il tutto senza mancare di rispetto al verdetto della Cassazione ma, in ogni caso, senza precludere una critica minuziosa e documentata dello stesso.
Mazza risponde a questo ambizioso obiettivo con argomentazioni, interpretazioni e, soprattutto, documenti di sicuro interesse e valore storico. Il Golpe Borghese fonda la propria tesi su un solido lavoro di ricerca e documentazione; sono diversi i documenti pubblicati all’interno dell’opera, principalmente provenienti dal Servizio informazioni difesa e cioè il celebre “Sid”, il servizio segreto di allora. Un micidiale strumento di ricerca di informazioni e dossieraggio, ma non solo. Il ruolo che il Sid svolse in quegli anni, e in particolare nella vicenda del Golpe Borghese e del suo ridimensionamento, sono al centro dell’interpretazione critica dell’autore.
Proprio attraverso la lettura dei documenti provenienti da questo ambiguo apparato di sicurezza interna, è stato possibile ricostruire la verità di questo quarto grado di giudizio storico.
Malloppi, malloppastri e malloppini
Ciò che rende l’opera meritevole di particolare attenzione è il cambio di prospettiva sui materiali di indagine che, all’epoca, vennero raccolti dal Sid e via via censurati da numerosi rimaneggiamenti e tagli di vario tipo. L’indagine sul golpe, originariamente diretta dal capitano del Sid Antonio Labruna, era particolarmente dettagliata, di buon livello e, soprattutto, di ampio respiro. Il «Malloppo originario» raccolto da Labruna con il suo lavoro investigativo venne tuttavia privato di alcuni elementi fondamentali e sottoposto al taglio chirurgico del suo superiore, il generale Gianadelio Maletti. Quest’ultimo consegnò solo nel 1974 al ministro della Difesa di allora, Giulio Andreotti, un «Malloppastro» già “dimagrito” ma comunque ancora corposo. Ed è proprio questo uno dei punti più rilevanti dell’intero testo di Mazza: ciò che ricevette Andreotti non rappresentava l’intera documentazione dell’indagine svolta dal Sid ed erroneamente definita “Malloppone”, proprio per sottolineare la sua completezza rispetto alle successive e ulteriori censure che i documenti subirono. Infatti, fu lo stesso Andreotti ad apportare ulteriori censure al «Malloppastro» ricevuto da Maletti e a ridurre il materiale di indagine a tre distinti «Malloppini», privi di elementi fondamentali per ravvisare delle notizie di reato nei confronti di singoli e rilevanti personaggi politici e dell’apparato militare.
Ciò che i magistrati romani ricevettero, e che poi diventerà la base del procedimento penale che si concluderà con una assoluzione piena e definitiva degli imputati, altro non era che un surrogato di informazioni parziali e volutamente insufficienti e contraddittorie.
Tale strategia rispondeva alle logiche di quella che l’autore definisce come la “Dottrina Maletti”. Alcuni apparati dello Stato, e in particolare ampie frange dei servizi segreti, ritenevano “la sinistra” l’unica vera minaccia alla sopravvivenza della Repubblica. Di conseguenza, essi erano portati a simpatizzare e a trattare con una certa accondiscendenza le forze neofasciste e di estrema destra, anche con intenti dichiaratamente golpistici. Essendo la sinistra l’autentico “nemico della Patria”, non vi era particolare interesse a raggiungere una piena verità sul Golpe. Né si intendeva rivelare che alcuni apparati militari avevano collaborato in diversi occasioni, ai fini della comune «Guerra fredda interna anticomunista», con quegli stessi neofascisti protagonisti del tentato colpo di Stato.
Ipotesi confermate e oscurità ancora da fugare
Sulla base dei documenti citati e pubblicati ne Il Golpe Borghese, l’autore traccia con chiarezza alcuni punti fino ad oggi ritenuti incerti o poco considerati. In particolare, viene dato grande risalto al ruolo che Licio Gelli avrebbe avuto nell’organizzazione del Golpe e nella “ritirata” ordinata a Roma in quella notte tra il 7 e l’8 dicembre. Un “dietrofront” che appassiona e interroga ancora gli storici in quanto le motivazioni che lo resero necessario potrebbero condurre alla genesi del progetto golpistico. Cosa andò storto, cosa impedì ai nostalgici della X Mas di portare fino in fondo il piano a lungo orchestrato? Chi diede l’ordine?
Come già detto, proprio qui viene sottolineato il ruolo che il “Venerabile” Gelli avrebbe interpretato quella notte: una veste di spicco, forse superiore a quella dello stesso Junio Valerio Borghese. Mazza è chiaro sul punto: mancano «la pistola fumante e il cadavere caldo», non si può confermare con certezza cosa fece o non fece Gelli in quelle ore. Eppure, sulla base dei documenti raccolti, delle censure che subirono, delle testimonianze incrociate e dei numerosi dati convergenti, l’autore ritiene storicamente attendibile un fatto di assoluta gravità: Gelli avrebbe guidato il rapimento ai danni del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Vi sarebbero minori, ma comunque consistenti, conferme sul ruolo di Gelli sul contrordine.
L’altra figura di spicco, particolarmente trattata nel libro, è quella di Giulio Andreotti. Mazza sottolinea il ruolo decisivo che ebbe l’allora ministro della Difesa nel selezionare gli atti e i documenti da produrre alla magistratura inquirente romana. Non solo: i documenti che Andreotti trasmise alla Procura vennero accompagnati da una «Scaletta» scritta dallo stesso ministro democristiano, e cioè un documento in cui egli «esprimeva la sua preoccupazione in merito alla perdita di reputazione che avrebbero potuto subire i militari sospettati di collusioni golpiste sottolineando la necessità di evitare “l’ingiusto discredito ad alcuni ufficiali e alle FF.AA. come tali”. La ratio dell’intera Scaletta era quella di sminuire l’indagine, di banalizzarla, di screditarla».
Non è in discussione la “fedeltà allo Stato” di Andreotti, anche perché egli rappresentava uno dei principali centri di potere dello stesso, né si tratta di indicare il Divo Giulio come complice del Golpe Borghese: niente di tutto questo. Ciò che però l’autore fa notare è che l’operazione di ritaglio del Malloppo originario da parte di Andreotti, pur suffragata dalla volontà di quest’ultimo di evitare danni collaterali ad altri apparati dello Stato, si scontra con l’indipendenza della Magistratura. Solo quest’ultima, infatti, è deputata a ricercare e a vagliare le notizie di reato e, in un ordinamento democratico, dovrebbe venire a conoscenza di tutti gli atti di indagine compiuti da altre forze di sicurezza e di polizia. Il compito di vagliare ciò che è “opportuno” perseguire non spetta al ministro della Difesa.
Un’opera necessaria
Il saggio di Mazza è un efficace e interessante lavoro di ricerca storica, ben documentato e ben scritto. Sin da subito si entra nel vivo di questo «quarto grado di giudizio» su uno dei misteri più cupi della Repubblica. È soprattutto un’opera necessaria, mezzo secolo dopo quel 1970 così denso di eventi storici determinanti, susseguitosi uno dopo l’altro. L’anno dello Statuto dei lavoratori e della Legge sul divorzio, della Rivolta di Reggio Calabria, della Strage di Gioia Tauro e anche del Golpe Borghese. Eventi che oggi sembrano così distanti e sbiaditi ma che hanno definito ciò che siamo oggi, come società e come stato democratico.
Fatti che andrebbero studiati con maggiore attenzione e, soprattutto, riscoperti a favore del grande pubblico. Solo comprendendo e conoscendo questi fatti determinanti possiamo permetterci di cogliere, con le dovute misure e proporzioni, le differenze con il nostro presente; riuscendo così a trattare con il dovuto scetticismo la prossima “emergenza sicurezza” che verrà rilanciata strumentalmente dal dibattito politico quotidiano. Leggendo libri come Il “Golpe Borghese” verremo a conoscenza di quanto la Repubblica, e tutti noi, rischiammo nell’affrontare una terribile e pericolosa emergenza costituzionale e democratica.
Alessandro Milito
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 179, novembre 2020)