In un mio intervento precedente su LucidaMente mi ero soffermato sull’eccessivo uso di termini angloamericani all’interno della nostra espressione linguistica.
Ora vorrei ritornare sul maltrattamento della lingua italiana, su torture ed aberrazioni praticate, ma stavolta senza evidenziare la questione del lessico straniero.
Prendiamo ad esempio alcuni modi di dire, in voga talora anche presso chi fa comunicazione, che mi incuriosiscono, e dei quali vorrei parlare brevemente.
Il tremendo e dilagante “attimino” – Primo: da quando è entrato in vigore l’euro, improvvisamente le lire sono diventate “vecchie lire”. Per esempio, “…al costo di 500 euro pari a circa un milione delle vecchie lire”. Perché vecchie, se non ci sono mai state le nuove? Non è più corretto dire “…pari ad un milione di lire”? Tanto tutti sanno che ormai sono fuori corso, senza bisogno dell’aggettivo. E, per lo stesso motivo, non è tanto più elegante ricorrere all’espressione “vecchio conio”. Altro vezzo è “un attimino”; non si considera che l’etimo di “attimo” da molti studiosi viene accreditato al greco en a-tòmo, che in pratica significa indivisibile, e nella fattispecie dà alla parola il significato di “minima particella di tempo, che non si può misurare”: figuriamoci cosa succede nel ridurla ancora col diminutivo. Mi è capitato di sentire al telefono: “aspetti due minutini”; ho fatto notare alla gentile signora che un “minutino” è formato forse da sessanta “secondini” e che quindi mi sarei dovuto aspettare una compagnia di agenti di custodia, come ora vengono chiamati i “secondini”. Ma, tralasciando lo scherzo, molto indisponente è poi l’abuso di “gente comune”, con l’uso del quale, con sottile e perverso senso di razzismo culturale o di casta, chi scrive o parla tratta il resto dell’umanità con spirito elitario, ponendosi egli stesso su un piedistallo che lo differenzia appunto dalla “gente comune”.
“…e quant’altro” – “Quant’altro” è la locuzione tormentone che negli ultimi tempi ci assilla, recata in ogni luogo ed in ogni direzione da quegli untori verbali che diffondono gli inquinanti linguistici e lessicali da quel formidabile trampolino che sono i media. Oramai nessuno dice più “…e così via”, “…e via dicendo”, “…ed altro” o anche “…e compagnia cantando”. Tutto è stato sostituito da “quant’altro”, il quale, prima sommessamente, poi intrufolandosi in un discorso colto da personaggio colto, si è diffuso come un virus in un’epidemia che in altri tempi ha visto il proliferare di bubboni quali “nella misura in cui”, “a monte”, “la problematica o le problematiche”, “peraltro”, divenendo la coloritura indispensabile al linguaggio degli intellettuali e dei loro scimmiottatori.
Ci vorrebbe un intervento “strutturale”? – Non dico che la parola non sia bella, ma, come sentenzia Ippocrate, ogni medicina è veleno ed ogni veleno è medicina; tutto sta nelle dosi. Ed ora, francamente, la lingua italiana sta soffrendo di un eccesso di “quant’altro”, che, in un organismo minato da anglicismi, solecismi “…e quant’altro”, sta metastatizzando, occupando gli spazi già lasciati vuoti dai congiuntivi, dalla concordanza dei numeri e dei generi, dai verbi, dagli aggettivi, e dai sinonimi italiani, oramai inevitabilmente e stabilmente sostituiti da parole e frasi americane. Ultima osservazione è per il termine “strutturale”. Non si fa più niente che non sia “strutturale”. Non una modifica, non un intervento, non un’analisi, non un finanziamento che non sia “strutturale”. Il bello è che io non lo capisco.
L’immagine: particolare di Cristo portacroce (1510-1535) di Jeroen Van Aeken, meglio noto come Hieronymus Bosch (’s-Hertogenbosch, 1450-1516).
Antonio Nicoletta
(LucidaMente, anno II, n. 22, ottobre 2007)