Intervista a Giovanni Battista Durante, del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, sulla cattiva gestione delle carceri italiane e il conseguente malessere degli agenti
La scandalosa situazione delle carceri italiane e la dolorosa situazione che è costretto a vivere chi vi è rinchiuso – ma anche chi vi opera – è un tema che sta particolarmente a cuore alla nostra rivista. Ce ne siamo occupati in numerose circostanze, a partire dalla pubblicazione di un vero e proprio dossier e di uno spunto satirico del nostro direttore. Abbiamo inoltre più volte ospitato testimonianze di detenuti come Vincenzo Andraous e Mario Trudu. E, soprattutto, dell’ergastolano-scrittore Carmelo Musumeci, il suo tragico appello, un’intervista, mentre un suo intervento-lettera aperta al ministro della Giustizia è presente anche in questo numero di LucidaMente.
Abbiamo incontrato Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) dell’Emilia-Romagna. Da tempo denuncia la mancanza di fondi e di personale che rende sempre più difficile il compito degli agenti e sempre più scarse le attività lavorative che potrebbero diminuire la percentuale di recidiva tra i detenuti in Italia. Ecco il testo dell’intervista che ci ha gentilmente concesso.
Ci può spiegare quali siano le odierne condizioni di lavoro degli agenti penitenziari italiani?
«I numeri parlano chiaro: la media nazionale è di un agente ogni 100 detenuti. In alcune sezioni si arriva ad affidarne 150 a un solo poliziotto. Mancano i soldi per il rifornimento di carburante per accompagnare i detenuti ai processi, le auto sono datate e alcune hanno più di 450 mila chilometri, compromettendo la sicurezza di chi le guida. Il nostro contratto di lavoro sarà bloccato per quattro anni. A Bologna mangiano meglio i detenuti. Poco tempo fa abbiamo scioperato per denunciare le pessime condizioni igieniche dei locali della mensa. Alla penuria di mezzi si aggiunge lo stress da lavoro, gli affetti lontani e il vivere in una grande città. Infatti, la maggior parte degli agenti proviene da paesi del Centro-Sud ed è costretta a lasciare le famiglie per lavorare in qualche carcere del Nord Italia e, poiché con uno stipendio di 1.200-1.300 euro al mese non riesce a pagarsi un affitto, vive in caserma. Lavora otto ore in una sezione con 100 detenuti, la maggior parte dei quali stranieri, con cui è difficile comunicare e che spesso non rispettano le regole. Si calcola che negli ultimi dieci anni i suicidi tra la polizia penitenziaria siano stati 90, il tasso più alto tra i dipendenti pubblici».
Perché il sistema penitenziario italiano funziona male? Come si può intervenire per migliorare le condizioni dei detenuti?
«Il carcere oggi può essere equiparato a un contenitore sociale. Immagine lontana dal contenuto dell’art. 27 della Costituzione italiana, in cui si legge: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il 38% dei detenuti sono stranieri, al Nord si arriva a una percentuale pari al 55%. Il 25% sono tossicodipendenti. Quasi il 40% deve scontare una pena residua inferiore a un anno. Secondo la legge n. 199/2010 molti detenuti potrebbero beneficiare degli arresti domiciliari, tuttavia, essendo per la maggior parte stranieri, non hanno la possibilità di usufruirne, in quanto non hanno parenti che possano garantire per il loro domicilio e le strutture alternative sono carenti. La recidiva in Italia è altissima, circa il 60% dei detenuti torna a delinquere, non avendo altre alternative. Occorre guardare alla Germania, dove il tasso di recidiva è del 14% e circa l’80% dei detenuti lavora. Questo permette loro un buon reinserimento sociale a fine pena. Il detenuto tedesco che svolge un’attività lavorativa in carcere guadagna 300 euro al mese, mentre quello italiano 1.000 euro. La gestione tedesca dei salari in carcere non è discriminatoria, in quanto permette al recluso di imparare un mestiere, abbassando così il tasso di recidiva. Per promuovere maggiormente le attività lavorative servirebbero delle agevolazioni fiscali e uno snellimento burocratico per quelle imprese che intendono investire sul lavoro dei detenuti».
Quali potrebbero essere, in conclusione, le riforme più urgenti da realizzare nel nostro sistema carcerario?
«Non è certo la formula “più carceri e più indulti”, proposta da diversi politici, quella ottimale. Dovrebbero, invece, esistere tre tipi di istituti penitenziari: quelli di massima sicurezza, quelli di media sicurezza per reati non gravi e quelli per il recupero trattamentale [ossia finalizzati al successivo reinserimento nella società, ndr]. Questa differenziazione agevolerebbe la polizia penitenziaria nello strutturare una formazione ad hoc per i propri agenti. Si punterebbe sulla sicurezza per i reati di mafia, in quanto difficilmente si spezza il vincolo associativo mafioso, se non con la collaborazione dei pentiti con lo Stato. Per le altre due strutture gli sforzi degli agenti si concentrerebbero maggiormente sul recupero e futuro inserimento sociale dei detenuti».
Per avere un quadro completo del dramma-carcere, con tabelle e considerazioni varie, si legga Pianeta Carcere: un sistema vicino al collasso totale di Antonio Antonuccio, apparso in due parti nei numeri 33 e 34 (aprile e maggio 2012) di Excursus: http://win.excursus.org/attualità/AntonuccioPianetaCarcerePartePrima.htme http://win.excursus.org/attualità/AntonuccioPianetaCarcereParteSeconda.htm.
L’immagine: tre foto di Giovanni Battista Durante nel corso di un dibattito tenutosi a Bologna e ricostruzione materiale e fisica a grandezza naturale di una cella, con gli oggetti che normalmente vi sono contenuti, per Una cella in piazza (Ferrara), progetto promosso dal difensore civico della Regione Emilia-Romagna, dal garante dei diritti per i detenuti di Ferrara, dal Comune di Ferrara e da Agire sociale (foto di Alessandro Sensini).
Francesca Gavio
(LucidaMente, anno VI, n. 72, dicembre 2011)
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