La tematica scottante de “Il giudice meschino” (Einaudi) e la Calabria di Mimmo Gangemi
Esiste un confine tra il sentirsi tranquilli e in pace con la propria coscienza perché si è svolto il proprio lavoro “senza eccessi di zelo” e il sapere che per adempiere al proprio dovere civile occorre assumersi rischi personali che sfiorano o oltrepassano il limite del sacrificio e dell’eroismo? È il tema centrale attorno a cui ruota il nuovo romanzo di Mimmo Gangemi: Il giudice meschino (Einaudi, pp. 360, € 19,00), finalista al Premio Bancarella 2010.
L’autore è un ingegnere sessantenne – oggi in pensione – che si è via via avvicinato alla letteratura; nato a Santa Cristina d’Aspromonte, vive a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, una terra massacrata dalla ‘ndrangheta, una società “guastata” dal fenomeno mafioso.
La difficile scelta tra quieto vivere e ribellione ai poteri “forti” è il dilemma che si trova di fronte il principale personaggio del libro, Alberto Lenzi, magistrato “prudente e timido”, che ha sempre pensato a tirare avanti, in un difficile gioco di equilibri tra la propria funzione, le leggi, lo Stato, i compromessi, le infiltrazioni mafiose e la criminalità vera e propria. A un certo punto un collega suo amico viene assassinato e gli autori del crimine vengono a loro volta uccisi dalla ‘ndrangheta. Così Lenzi, più per onorare l’amico magistrato e il figlio ancora bambino del defunto, viene a contatto attraverso occhi nuovi con quel mondo di corruzioni, malaffare, crimine organizzato, che ha sempre evitato di “vedere”. In particolare con i rifiuti pericolosissimi scaricati su una montagna calabrese e con poteri ancora più insidiosi della criminalità locale. Cosa farà: ancora venire a patti con la quotidianità corrotta e la rassegnazione o rischiare in prima persona?
Anche in un precedente romanzo di Gangemi, Il passo del cordaio (Milano, Il Sole 24 Ore) il protagonista, l’avvocato Gino De Rupe, non era un eroe, ma, come difensore di un innocente, accusato ingiustamente di un assassinio, proverà a compiere le proprie indagini, alla ricerca di una “verità”, che si rivelerà ben più complicata e contorta di quanto si sarebbe potuto ipotizzare. E, come in quel libro, il cui titolo offriva la chiave di lettura anche di tutta la vicenda (il cordaio, per intrecciare le corde, compie passi a ritroso), la storia narrata ne Il giudice meschino non procede con linearità, secondo la “norma” romanzesca e in particolare del “giallo”, ma va al contrario, si avvoltola, si attorciglia, si torce, per cui la situazione di partenza va viepiù complicandosi.
Il libro e la sua domanda centrale hanno suscitato un fitto dibattito, anche a livello nazionale. È stato lo stesso Gangemi (Il diritto di non essere eroi, in La Stampa.it, 5 gennaio 2010) a spiegare che «la ‘ndrangheta è dura da sconfiggere, perché entra nelle case, sorride e porge la mano, lusinga, soccorre a volte – seppure ne chieda sempre il prezzo – e si compone di gruppi di famiglie difficili al tradimento. Qui la ‘ndrangheta sono le persone che incontri per strada e con cui scambi parole e cortesie, qui è forte delle ricchezze accumulate dal niente, qui fa invidia ed esempio. Qui diventa Stato, se ne sostituisce. Questo ha imparato a farlo bene: ormai non si accontenta di orientare i voti su persone gradite, ma candida i suoi rampolli, prova a farli sindaci, deputati regionali, parlamentari. Adesso può, perché li ha mandati a studiare, li ha armati di lingua e del sorriso accattivante, ha dato loro modi che ingannano di rispettabilità».
Come ha detto recentemente in tv un magistrato reggino impegnato in prima fila nella lotta alla ‘ndrangheta, questa esisterà finché esisterà l’uomo. Altrettanto prive di retorica e di false speranze le parole dell’intervista rilasciata da Gangemi a una rivista di Palmi (Giorgia Gargano, Il prezzo della tranquillità, in Itaca, n. 9, marzo 2010, p. 11): «Lo Stato è stato troppo assente ed è tempo che si mostri concreto nel combattere il malaffare. Quando il cittadino, oggi inerme, si accorgerà che sarà stata finalmente marcata una linea di separazione dalla realtà malavitosa, quando scorgerà due mondi distinti e separati e non piuttosto un compenetrarsi dell’uno nell’altro, allora saprà individuare la barricata giusta dietro cui ripararsi e fidare. E sarà accanto allo Stato. Perciò, cominci lo Stato. Noi lo seguiremo, senza dover essere eroi, con i normali gesti di ordinaria quotidianità che connotano la civiltà di un popolo».
Tra Stato e mafia: in conclusione, il cittadino calabrese, frequentemente criminalizzato, si schiererà dalla parte giusta quando i poteri che insistono sul territorio saranno nettamente distinti. Finché essi saranno intrecciati, assumeranno contorni sfumati, in un sottobosco di infiltrazioni e corruzione, egli non potrà che voltarsi da un’altra parte, perché, come scriveva Bertolt Brecht in Galileo, “sventurato quel paese che ha bisogno di eroi”.
Dei precedenti libri dello scrittore reggino si è già occupato l’autore del presente articolo con il breve saggio L’opera di Domenico Gangemi (in Calabria Sconosciuta, n. 113, gennaio-marzo 2007, pp. 57-58). Per ulteriori notizie, ci si può collegare al bel sito di Gangemi: www.domenicogangemi.it.
L’immagine: la copertina de Il giudice meschino.
Rino Tripodi
(Lucidamente, anno V, n. 56, agosto 2010)