Robert Redford, nel film The Conspirator, si conferma attento indagatore dei temi etico-politici, trasferendo sullo schermo la vicenda di Mary Surratt, condannata a morte per l’omicidio di Lincoln
Dopo Leoni per agnelli, pellicola del 2007 dedicata al tema della guerra e dell’informazione giornalistica, Robert Redford torna alla regia con l’avvincente The Conspirator, film nel quale ricostruisce la tragica sorte di Mary Surratt, la prima donna della storia statunitense condannata alla pena capitale. Mary fu accusata di aver preso attivamente parte al complotto ordito da un gruppo di sudisti contro il presidente Abraham Lincoln, gravemente ferito il 14 aprile 1865 al Ford’s Theatre di Washington dall’attore John Booth e morto il giorno seguente.
La trama ha come protagonista Frederick Aiken, giovane avvocato ed eroe della Guerra di secessione, che viene convinto dal proprio mentore a diventare difensore della Surratt. Pur essendo inizialmente riluttante a difendere l’imputata, Aiken si batte affinché – anche nel caso in cui sia colpevole – siano rispettati i suoi diritti durante la detenzione e il processo, che si svolge di fronte a una corte marziale e non presso un tribunale civile. Convintosi dell’estraneità della donna all’omicidio, egli s’impegna al massimo affinché venga assolta, ma dovrà ben presto rendersi conto che Mary viene considerata dalle autorità come una “vittima sacrificale” da immolare sull’altare della “ragion di Stato” al posto del figlio John, tra i presunti ideatori dell’attentato, che si è reso nel frattempo irreperibile.
Nonostante i ragionevoli dubbi sorti durante il dibattimento e la richiesta firmata da un procuratore di ripetere il processo davanti a giudici ordinari, la donna sarà ugualmente impiccata insieme ad altri tre cospiratori, mentre John verrà prosciolto dalle accuse due anni dopo, quando ormai il clima politico è mutato e si cerca di ricucire lo strappo tra nordisti e sudisti. Aiken, aspramente criticato dall’opinione pubblica per aver difeso con caparbietà la sua assistita, deciderà di rinunciare alla carriera forense, nella quale non ha ormai più prospettive, per dedicarsi al giornalismo come redattore del Washington Post.
Attraverso la tecnica narrativa del Courtroom Drama (“dramma legale”), che conferisce al racconto una suspense assai coinvolgente, Redford imbastisce un film storico e d’impegno civile, descrivendo con espressività e accuratezza la fase terminale della Guerra di secessione, pervasa da un crudo senso di rivalsa da parte dei vincitori nei confronti dei vinti. Il regista, inoltre, riflette sui meccanismi perversi del potere e sulla nefasta “ragion di Stato”, in cerca di comodi capri espiatori sui quali riversare il malcontento delle masse e sempre pronta a sacrificare i diritti dei cittadini in nome dei superiori interessi nazionali. Emblematico, in tal senso, appare il motto ciceroniano che il Pubblico Ministero pronuncia, verso la fine della pellicola, durante un colloquio riservato con Aiken: «Inter arma enim silent leges» («In mezzo alle armi infatti le leggi tacciono»).
La frase richiama subito alla mente ciò che è successo negli Stati Uniti dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, quando, in nome della lotta al terrorismo, sono stati notevolmente ridotti i diritti civili sanciti dalla Costituzione. Il film vuole anche denunciare il ricorso alla pena di morte che si registra ancora oggi negli Usa: le esecuzioni capitali sono viste non come atto di giustizia, bensì come terribile arma di vendetta, talvolta utilizzata dai governi per eliminare individui politicamente scomodi (come Joe Hill, Nicola Sacco, Bartolomeo Vanzetti e i coniugi Rosenberg) e per tacitare un’opinione pubblica angosciata dalla paura del “nemico”, soprattutto a causa del bombardamento mediatico che ingigantisce i pericoli e crea psicosi collettive, abilmente sfruttate da chi vuole fomentare, per propri interessi personali, le guerre.
L’immagine: la locandina di The Conspirator.
Giuseppe Licandro
(LM EXTRA n. 25, 20 luglio 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 67, luglio 2011)