LA RILETTURA
Gian Antonio Stella, noto fustigatore del malcostume nostrano, alcuni anni or sono pubblicò un fortunato saggio intitolato L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi (Rizzoli), nel quale ammoniva i suoi compatrioti a non dimenticare i propri trascorsi e ad accogliere con maggiore benevolenza gli immigranti stranieri che venivano a lavorare in Italia.
Lo stesso discorso – mutatis mutandis – si potrebbe rivolgere oggi anche a quei cittadini statunitensi che sembrano aver rimosso dalla propria memoria collettiva gli anni della “grande depressione”, quando la miseria si abbatté su milioni di lavoratori, provocando, tra l’altro, un esodo di massa verso la California.
La migrazione degli Okies – Okies erano soprannominati i coloni statunitensi che, negli anni Trenta del Novecento, si spostarono in cerca di lavoro dagli stati del Sud-Ovest (soprattutto dall’Oklahoma, da cui è derivato il nomignolo dispregiativo) verso la ricca e fertile California, dopo essere stati privati delle terre dalle banche creditrici e aver perso anche il lavoro come braccianti per colpa delle macchine agricole. John Steinbeck (1908-1968), premio Nobel per la letteratura e romanziere impegnato nella denuncia delle ingiustizie sociali, raccontò nel 1939, con grande intensità, l’odissea di migliaia di uomini, donne e bambini che, dopo aver attraversato con mezzi di fortuna quasi metà dell’immenso territorio statunitense, si riversarono nella “terra promessa” californiana, inseguendo il miraggio di un’esistenza più copiosa. Furore (il cui titolo originale era The Grapes of Wrath, vale a dire L’uva della rabbia) fu scritto da Steinbeck nel 1939 e venne tradotto in italiano l’anno successivo da Carlo Coardi, per la casa editrice Bompiani, che ne curò, in seguito, innumerevoli ristampe.
Il volto classista degli Usa – Pur essendo ambientato negli anni del New Deal – voluto dal presidente Franklin Delano Roosevelt proprio per difendere le categorie sociali più deboli –, il romanzo scopre il volto classista degli Stati Uniti d’America, denunciando la mancanza di scrupoli dei grandi proprietari terrieri, insensibili alla sorte di milioni di contadini e pronti a sfruttarne l’indigenza pur di aumentare i profitti. Il personaggio principale, Tom Joad, dopo quattro anni trascorsi in galera per omicidio preterintenzionale, è voglioso di riscattarsi, ma si trova improvvisamente di fronte al dramma della sua famiglia di coloni, sfrattata da una fattoria dell’Oklahoma, perché i padroni preferiscono sostituire la manodopera con le «trattrici», cioè i moderni trattori. A Tom e allo stuolo dei suoi parenti – guidati dall’intraprendente e risoluta signora Joad – non resta che emigrare verso la California, dove un’ingannevole propaganda lascia intravedere la possibilità di trovare un lavoro ben retribuito.
Tra morte e speranza – La realtà, tuttavia, è ben diversa. La famiglia Joad sarà perlopiù accolta con diffidenza e ostilità dai californiani, scontrandosi spesso contro poliziotti burberi e intolleranti, asserviti agli interessi dei grandi proprietari, ma talvolta anche contro i lavoratori locali, che vedono nei nuovi arrivati dei pericolosi concorrenti. Solo in un camping statale, gestito in forma di cooperativa dagli stessi residenti, i protagonisti riusciranno a trovare un po’ di conforto e di aiuto, vivendo anche momenti di allegria. La vicenda, però, assume a un tratto sembianze tragiche: dopo aver trovato lavoro presso un’impresa agricola, gli Joad sono coinvolti – loro malgrado – in un duro conflitto sindacale che oppone i raccoglitori di pesche ai dirigenti aziendali (le ragioni e l’intensità dello scontro sociale allora in atto negli Usa sono espresse perfettamente dalla frase di Steinbeck: «E sotto questa suprema degradazione cominciò a fermentare il furore della disperazione»). Tom finisce per uccidere a bastonate una guardia privata, che, a sua volta, ha colpito a morte il suo amico Casy, un reverendo postosi a capo dei lavoratori in sciopero. La rovina, a questo punto, sembra abbattersi sugli Joad. Mentre il protagonista – che ha maturato nel frattempo una forte coscienza sindacale – si dà alla macchia per sfuggire all’arresto, la sua famiglia è costretta a migrare più a Nord, ma lungo il tragitto viene investita prima da una pioggia torrenziale e poi da un’inondazione. Il romanzo, tuttavia, si conclude con un commovente gesto di solidarietà umana, che apre uno spiraglio di speranza per il futuro: i superstiti, riparatisi in una stalla, trovano un uomo in fin di vita, stremato dalla febbre e dalla fame e Rosa Tea – una delle sorelle di Tom, che ha da poco partorito un neonato morto – offre il suo seno ricolmo di latte all’affamato, salvandolo dalla morte.
Il viaggio e il rapporto uomo-natura – Furore assume spesso i toni melodrammatici del romanzo d’avventura (non a caso John Ford nel 1940 ne trasse un film di successo, dal titolo omonimo, con il giovane Henry Fonda nel ruolo di Tom Joad), ma nello stesso tempo anticipa il leitmotiv di tanta letteratura posteriore, cioè il viaggio attraverso il continente americano, così caro a Jack Kerouac e agli esponenti della beat generation. Lo scritto di Steinbeck si qualifica, oltre che per le profonde riflessioni politico-sociali, anche per le descrizioni del paesaggio – selvaggio e affascinante – delle “terre dell’Ovest”, attraverso cui l’autore affronta un altro dei temi tipici della sua narrativa, cioè quello del rapporto fra uomo e natura. Una sola nota sembra stonare nel contesto di un racconto per altro gradevolissimo: la crudeltà con cui alcuni personaggi del libro uccidono o maltrattano gli animali, senza motivo. Ma proprio tali insensati comportamenti testimoniano la violenza di fondo della società americana di quel tempo, durante il quale la coscienza ambientalista e il rispetto degli animali – adesso in voga anche negli States – apparivano ancora retaggio di esigue minoranze intellettuali. Ben altre, infatti, erano le priorità delle masse e soprattutto degli Okies, che vivevano nella miseria e nel degrado esattamente come adesso vivono milioni di emigrati in tante parti del mondo.
L’immagine: La copertina del libro di Steinbeck.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno III, n. 33, settembre 2008)